TRI BRATA
di Serik Aprymov
con Kasim Zhakibaev, Shakir Viljamov e Bolat Mazhagylov
in concorso alla diciottesima edizione del
Torino Film Festival
- sezione lungometraggi -
recensione di
Claudia RUSSO
Il fratello maggiore al minore: "…E ricorda, anche sotto tortura non
una parola del lago!"
Il lago… il mistero del lago, le meraviglie del lago, il desiderio di
quel mitico lago dietro le montagne…
Il vecchio Klein che ripara locomotive e conosce la vita e sa amare una
donna non ha dubbi: solo i migliori potranno raggiungerlo.
Che fare allora? Aspettare.
Aspettare di essere migliori… e crescere nell'attesa.
"Il film nasce da una precisa percezione. Da un sogno in cui io stesso,
bambino, mi guardo allo specchio scoprendomi adulto; mi guardo allo specchio
spaventandomi di aver perduto l'ingenuità" - dichiara il regista e sceneggiatore
Serik Aprymov.
Eppure TRI BRATA, storia di tre fratelli kazaki e del loro rapportarsi
ad un mondo fatto di altri bambini, di giovani donne e di uomini anziani
(totale assenza di personaggi maschili adulti ad eccezione del giovane
militare che amoreggia con la ragazza dalle gambe grosse dietro
il treno), non è un film sull'infanzia.
E' vero: il tema della crescita, delle prime curiosità sul sesso, della
"voglia di avventura" proprie dell'adolescenza non è originalissimo, e
il regista sembra aver molto investito sull'impatto emozionale suscitato
nel pubblico dalla simpatica e tenera figura del protagonista bambino
dalle guance tornite e dagli occhi "curiosi" (stratagemma questo già collaudato
ad esempio dal regista di LIAM film che, presentato quest'anno a Venezia,
verrà certamente ricordato più per la dolcezza del suo piccolo interprete
che non per il valore della tematica affrontata)…
Ma TRI BRATA non è solo questo.
E' il becco di un gallo e lo sguardo di un bambino; è rubare cioccolatini
che la mamma non deve sapere; è lanciare un cappello contro una
ragazzina per scoprire se è matura.
Realismo e poesia si alternano all'interno di una vicenda scandita dalle
illustrazioni di un libro per bambini (i vari episodi sono sempre introdotti
da un disegno-schizzo simile a quello dei racconti infantili) che
di infantile, però, ha giusto la facciata.
"Che problemi puoi avere tu?" - si domanda al bambino.
"Tutti quelli che voglio" - risponde schiettamente quest'ultimo. Ed ha
ragione!
Non è certo facile per Chibut essere catturato dalla "banda nemica" che
cerca di trovare il lago prima dei suoi (particolarmente felice
la scena della tortura basata sulla contrapposizione tra atteggiamento
crudele da rapitori e ingenuità dei ragionamenti degli stessi:
"Diamogli la scossa!…E' inutile, i Fleeding non parlano…"); non è facile
farsi la pipì addosso durante la notte (ci fa sorridere la battuta di
uno dei fratelli costretto a dividere il letto con il piccolo protagonista
: "Non così vicino! Poi la fa addosso a me!"); non è facile rimanere solo
dopo la morte di amici e fratelli che volevano trovare il lago da soli
(densa di significato la frase finale, stonata in bocca ad un bambino:
"Cosa sperava Klein? Un miracolo? I miracoli non esistono").
Ho sentito alcuni lamentarsi:- "Non c'è musica in questo film…"
E' vero; manca la colonna sonora da brivido a comando.
Al suo posto l'ossessivo cinguettio degli uccelli o il prolungato criii-criii
del grillo; sempre uguale come la quotidianità, fastidioso come la normalità,
martellante come la vita.
E' una dimensione apparentemente "semplice" quella dei nove personaggi
(cinque più piccoli, quattro più grandicelli). Una dimensione in cui il
valore di un ragazzo si misura in relazione alla sua capacità urinaria
(tutti in fila come soldati davanti a mucchietti di terra bagnata aspettano
con ansia mista a rispetto il verdetto del vecchio Klein) e per diventare
grandi è necessario riconoscere lo sguardo di una donna e saperlo ricambiare…
Carta vincente di un'opera non-capolavoro che ha però il gran merito
di non pretendere di esserlo sono le scene corali studiate nel dettaglio
e caratterizzate da una sorta di voluto "equilibrio teatrale". Degna di
nota ad esempio la posizione dei bambini che spiano l'amore appollaiati
sui vagoni del treno a diverse altezze; degno di nota l'ordine militare
con il quale si sottopongono al giudizio del vecchio saggio (che forse
troppo saggio non è…)
Il vecchio… la responsabilità… il progresso.
Questi forse i veri nuclei tematici sottesi ad una vicenda "piacevolmente"
rappresentata con i toni dell'ironia e della leggerezza; questi forse
i veri problemi che i bambini (e non solo loro) sono chiamati ad affrontare;
questi i punti di partenza di una riflessione che va ben oltre i limitati
confini kazaki o il ristretto contesto storico.
Sono i Caccia SU-27 kazaki come i missili spaziali; sono la curiosità
e ingenuità di un gruppo di bambini come l'irrefrenabile desiderio di
conoscere di tutto il genere umano; sono il senso di colpa e responsabilità
di un vecchio macchinista come il complesso rapporto uomo- società non
ancora risolto (forse perché irrisolvibile).
E' il nostro tempo (nel classico schema ad anello presente-passato-presente)
ad aver l'ultima parola.
Chibut è sopravvissuto: è un pilota d'aerei.
"Per non cadere devi fidarti. Non dei tuoi occhi, ma del pannello di controllo"
- gli ha insegnato il progresso.
"Giusto" - rispondiamo sicuri.
"Ma i suoi occhi hanno poi imparato a guardare quelli di una donna… e
a fidarsi dei suoi?" - Silenzio.
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