EVENTI TEATRO DANZA

PANTAKIN DA VENEZIA

(Italia)

biennaleteatro2006

 

di Gabriele FRANCIONI


Il corvo. FAVOLA IN MASCHERa.

Liberamente tratto da "Il Corvo" di Carlo Gozzi

Campo S.Trovaso, 27/30 luglio

 

Regia e drammaturgia Michele Modesto Casarin - musiche originali Andrea Mazzacavallo - con Roberto Serpi (Millo, Re di Frattombrosa), Tommaso Benvenuti (Jennaro, Principe, fratello del re), Marta Dalla Via (Armilla, Principessa di Damasco – Corvo), Manuela Massimi (Morgana, negromante – Colomba), Stefano Tosoni (Tartaglia, ministro), Michele Modesto Casarin (Pantalone, Ammiraglio Zuechino), Laura Graziosi (Balia, Serva di Corte) - coreografie Giorgio Rossi - scene e costumi Licia Lucchese - maschere Stefano Perocco di Meduna - duelli Andrea Pennacchi, Maurizio Faleschin - luci Pietro Sperduti e Maurizio Fabretti - produzione Pantakin da Venezia, La Biennale di Venezia, Teatro Stabile del Veneto “Carlo Goldoni” - in collaborazione con Città di Venezia – Direzione Beni, Attività e Produzioni Culturali, Regione Veneto, Produttori Professionali Teatrali Veneti, Ministero per i Beni e le Attività Culturali.

La fiaba teatrale "Il Corvo" propone, tra le altre cose, un paio d'istantanee di pura cinematografia: il carpenteriano drago che esce da una stanza del palazzo reale evoca GROSSO GUAIO A CHINATOWN (ma s'incarna in un purissimo alien rambaldiano e gigeriano); il breve duello alla spada è in stile neo-wu-xia-pian, con tanto di piroette in aria.
Per raccontare i gradi di modernità dello spettacolo di Pantakin da Venezia, ecco altri dati ad uso dei lettori: le musiche costituiscono materia assai concreta posta in primissimo piano, declinata in una complessiva veste slow-techno, ma con il vero centro in un atteggiamento da world-music molto varia, quindi non solo orientaleggiante.
Il senso complessivo del bellissimo allestimento è, ad ogni modo, la perfetta integrazione multimediale di suono-voce-costumi-scene.
Un racconto anche di mare, di viaggio, accolto nell'incavo di Campo San Trovaso, a un passo dal Canale della Giudecca, e quindi in vista dell'acqua, aperto all'interazione acustica di gente che attraversa ponti e a tutti gli effetti è sulla scena.
Gozzi fissa subito le sue classiche coordinate: non esiste conquista senza scambio, non c'è colonizzazione, anche se agita in territorio neutrale o, altrimenti, privato, senza dimissione di ogni "ybris".

Ogni "progetto" deve tener conto del genius loci, anche se il terreno di edificazione è una donna e il suo corpo le fondamenta su cui conficcare il primo paletto.
Nulla conta la fascinazione esotica, il souvenir da fondale colorato: siamo nei secoli di un'apertura verso orizzonti commerciali nuovi e Venezia è Porta per l'Oriente, capace di dialogare e, poi, di convincere con la sua parata di facciate sul Canal Grande, ammirate da chi era in viaggio d'affari.
Venezia è puro décor orientale, bizantino, nulla a che vedere con la trilitica potenza di Roma: le scenografie urbane delle due città esposte a mo' di manifesto politico-culturale, impositiva e colonizzatrice l'una, dialogante e scambista l'altra.
Ecco allora un re fannullone che riceve dal fratello viaggiatore la figlia della regina di Damasco a mo' di trofeo da esporre e donna da sposare: come ne "La Donna Serpente", però, si scatenano maghe (la madre di Armilla) e draghi a stabilire l'etica dello scambio, siglata dal contro-sacrificio della famiglia del re, di cui si deve provare la purezza del sentimento.
Suo fratello si farà pietra, a meno che non pugnali a morte Armilla stessa, che segretamente ama platonicamente.
Il re, disperato di fronte alla nuova facies litica del povero parente, grazie al supporto della sposa cui mostra vero amore, lo riavrà indietro sub specie organica grazie allo scioglimento dell'incantesimo da parte della neo-benevola suocera.
I casi familiari, da queste parti letterarie, passeggiano tra i registri tragico e comico con gradevole nonchalance e la stessa madre che chiama a morte l'indipendente figlia (diciamolo: si è lasciata rapire per un viaggio iniziatico e liberatorio) si scioglierà nel gioco del doppio e lascerà a terra la maschera che prima la voleva orrida medusa nera.
Assolutamente pertinente l'allestimento: il lato opposto alla chiesa di S. Trovaso accoglie pochi lacerti di scenografia e nessun fondale fisso che chiuda lo spazio reale. Una scala in legno aggira il centro della scena e si allunga in un breve ballatoio (servirà alle gag della Balia, di Tartaglia e Pantalone in parata), legando i due estremi del palco, da cui escono i personaggi.
Tre lievi diaframmi sono tende utilizzate in modi diversi: coprono, accolgono proiezioni, sono immagini di Damasco, ricevono una suggestiva retro-proiezione del re meditabondo, si alzano e si abbassano continuamente, confermando quanto poco basti se il resto (attori, costumi, rielaborazione del testo) è vicino alla perfezione.
La fiaba dal solido contenuto morale scorre leggera, sulle note continue di una linea sonora ininterrotta e davvero notevole, che tocca momenti indimenticabili nel canto della colomba bianca - braccia come ali, ma anche come le danzatrici cinesi dalle maniche lunghe - arabeggiante e orrorifico, con tutti quei mezzi toni, e nell'apparizione dance-trance del drago.
Convince l'insieme, l'equilibrio di narrazione espositiva e commento buffo (Tartaglia esordisce con lode, poi forse cala alla distanza; Balia e Pantalon, accento marchigiano-laziale versus lazzi veneziani, sempre graditi dal pubblico, tengono bene la scena).
Bene i fratelli lacerati dalle vicende, ottima la regina di Damasco, capace, come la colomba, di far trattenere il fiato e sospendere il tempo della messa in scena e della narrazione.