“La memoria di Federico Fellini sullo schermo del cinema mondiale.”
RIMINI, NOVEMBRE 2003

di Lucia LOMBARDI

Si è concluso a Rimini in questi giorni, il convegno internazionale di studi felliani in omaggio al maestro riminese, a dieci anni dalla sua scomparsa.

 

“Il patrimonio che un artista ci lascia, conclusa la sua stagione creativa, è per definizione un oggetto ambiguo ed esposto ai più diversi usi, alle più varie interpretazioni, alle più disparate letture. Un segmento di passato che viene trascinato come un sughero nei vortici del presente, piegato ogni volta alle urgenze del momento e alle inevitabili stumentalità dei punti di vista. Ma quello della relatività e della parzialità è, credo, il destino di ogni produzione creativa che trova il suo compimento e la sua più profonda ragion d’essere proprio nell’incontro, sempre diverso e irripetibile, con le soggettività dei destinatari… .” Con queste parole, Giuseppe Bertolucci, dava corpo al proprio intervento, lo scorso anno a Rimini, in occasione del convegno. Sono affermazioni pregnanti, significative in merito allo sviluppo che il prodotto artistico, prende una volta che si è separato dal suo creatore. Per Bertolucci l’eredità di Fellini era un modo per ritrovarsi, paragonarsi. Ecco, che anche il convegno di quest’anno, ha lanciato molti spunti, chiarito altri nessi di quella storia talvolta coacervo di equivoci, di enigmi della mente e del vissuto. Un uomo che ha fatto coraggiosamente della creatività e della fantasia il proprio vessillo. Certo, perché mettere a nudo la propria poesia interiore è togliere quel velo di tulle che ci protegge dall’occhio altrui.

 

Catherine Breillat

 

Il consesso riminese ha visto nella prima giornata di venerdì 7 novembre, apportare il proprio contributo la regista francese (suo il film Romance con Rocco Siffredi) Catherine Breillat (collaboratrice del regista in E la nave va), secondo cui le inquadrature che Federico Fellini girava e pensava, nessuno saprebbe riproporre con quella maestria ed originalità, ottenuta da più elementi, come per esempio il piacere quasi infantile nella creazione dei costumi di scena (si veda la mostra dei costumi di scena, dei film Roma e IL Casanova, che il Comune di Rimini ha acquistato, allestita al Palazzo dell’Arengo sino al 16 novembre), usufruendo di materiali semplici, quasi gesti primitivi, la regista sostiene che quel periodo di cinema “selvaggio”, era un’epoca di generosità. Vincenzo Mollica, inviato della redazione Spettacoli del TG1, grande amico di Fellini, ci ha raccontato molto, attraverso le sue doti di cronista, dell’uomo Fellini, grazie all’esperienza conoscitiva, e alle passioni visive che accompagnavano il regista nella vita. Due registi che nominava spesso e considerava uno l’Adamo e l’altro l’Omero del cinema erano rispettivamente Charlie Chaplin e Roberto Rossellini (con cui F.F. collaborò alla sceneggiatura dei film Roma città aperta e Paisà). Egli, considerava Chaplin come un regalo di Natale, perché in quegli anni infantili, i suoi film giungevano al cinema nel periodo natalizio. Del personaggio Charlot, lo attirava il vagabondare, il perdersi nei propri luoghi, nella propria geografia, modalità che anche Fellini seguiva, quando girava in auto di notte, accompagnato da Mollica, per le strade di Roma, percorrendo sempre gli stessi luoghi, che cambiavano volto, perché accompagnati dai racconti del maestro. Fellini, non pensava mai di fare un film drammatico, in primis ricercava la risata. Egli, faceva un distinguo tra umorismo e satira, il primo lo considerava più profondo, psicologicamente addentrante in un percorso di ricerca introspettiva, esplicativa; mentre la seconda era una espressione di rivalità con qualcos’altro; considerava quindi l’umorismo più costruttivo, tant’è che per lui i fumetti erano letteratura disegnata. Il personaggio disneyano che prediligeva era Paperino, soggetto che considerava cultura alta del ‘900. Era attratto dall’aspetto gotico che Disney sviscerava nei suoi film animati, era un modo, sosteneva, per materializzare la paura, veniva attirato dai personaggi cattivi. Per capire meglio il grande regista, bisognerebbe sfogliare le vecchie pagine del “Corriere dei piccoli” tra gli anni ’29-’30-’31 (collezione che Fellini regalò a Mollica prima di morire), lì è possibile ritrovare tutto il cinema di Fellini, i colori, le facce. Sarebbe importante fare dei riferimenti allo speciale di 45’ girato nell’87 dal titolo Walt Disney, due chiacchere con Federico Fellini, trasformato in una lunga intervista, che si era accuratamente preparato, introdusse un episodio astratto, fatto di suoni e colori, tratto da Fantasia di Disney, simboleggiante l’estro dell’americano, che Fellini considerava un privilegiato, un poeta libero, perché usava la propria immaginazione appieno.

Un appuntamento importante del convegno 2003, è l’inaugurazione del “Museo Fellini”, all’interno del quale, sono state collocate 120 fotografie di Gideon Bachmann, che egli scattò durante le riprese del finale cambiato di 8 ½. Questa testimonianza fotografica rimane l’unica prova concreta di quelle sequenze girate da Fellini in quanto la pellicola è andata perduta. Il museo è situato in via Oberdan 1, la mostra “8 ½  -Il viaggio di Fellini”, rimarrà aperta sino al 6 gennaio 2004.

 

 

Catalogo “8 ½  -Il viaggio di Fellini” fotografie di Gideon Bachmann edito da Cinemazero a cura di Mario Sesti e Andrea Crozzoli, 30 euro.

In essa ritroviamo una carrellata di volti, set gremiti di comparse, volti, e bellissimi i ritratti scattati in momenti di pausa a Fellini, Loren e Mastroianni. Avvincenti gli scatti che ritraggono il regista mentre incita gli attori, e li consiglia. E’ certo che queste, appaiono, quali immagini esplicative di ciò che possa essere un set, quale forse architettura effimera, pari a quelle che gli architetti del ‘600 costruivano per le cerimonie e poi smontavano l’indomani. Ma qui tutto invece pare tangibile, duraturo, un ritrovo della fantasia, che si concretizza, ancora prima di impressionare la pellicola. Scorsese con il suo documentario in questa sede proiettato in anteprima, della durata di 10’, dal titolo “A proposito de La strada”, in cui esprime il suo rapimento nei confronti del cinema felliniano e dell’influenza subita dal film La strada. Il professor Peter Bondanella, insegnante di letteratura e lingua italiana presso l’Indiana University, ha pubblicato inoltre vari testi sul cinema di Federico Fellini e sul Neorealismo. Bondanella, ha scovato, innumerevoli connessioni tra il cinema contemporaneo, e quello del riminese: come in Mean Street di Scorsese, Stardust Memories di Allen, Underground di Emir Kusturica, Greenway, Schumacher, Mazursky, Wertmuller, Tornatore.

 

Importante per rileggere Rimini attraverso Fellini, è stata la presentazione da parte del giornalista Sergio Zavoli, del volume rieditato dall’editore Guaraldi, dal titolo “La mia Rimini”, che nel ’67 Renzo Renzi, scrisse, e che oggi è stato riveduto ed ampliato, con l’inserimento di apporti ulteriori. Zavoli che ha curato pre e post fazione, asserisce, che il libro, ha una natura pedagogica, civile ed etica. Diviene un mezzo di riconciliazione tra Rimini e Fellini, oramai d'altronde è impossibile leggere Rimini senza passare attraverso una rilettura felliniana dei luoghi, dei personaggi, di un modus vivendi. Ironia della sorte il regista si ammalò proprio a Rimini, allora la città si sentì come lusingata, una sorta di avvenuta riconciliazione con il luogo del disincanto. Quando veniva a Rimini soggiornava con Giulietta Masina, al Grand Hotel nella stanza 315, amava ascoltare il sibilo del Faro salvifico, con la surreale nebbia che ammanta i luoghi.  Il libro è un compendio ben architettato dall’editore, che diviene una grande lezione per poter afferrare un Fellini fuori dagli stilemi che ne popolano la memoria. Il racconto di Zavoli amico, viene integrato dall’intervento di Ennio Cavalli, che ha montato alcune interviste radiofoniche dal titolo: “Contemporanea”, in cui il maestro enumerava le prime immagini di Rimini che ricordava: la nebbia, il mare d’inverno, le passeggiate per il Corso; ancor oggi elementi appartenenti alla città, topoi immancabili, per assimilare la realtà incanalandola artisticamente. I vitelloni aggiunse Fellini nell’intervista, esistono ancora in quanto modo d’essere, è una provincia dell’anima, esisterà sinché ci sarà l’uomo bambino, l’adolescente eterno, irresponsabile. Cinecittà era per Fellini una cittadella, una patria che non è patria. Roma ti ridimensiona, in quanto, lì non hai identità, ti viene donata una clandestinità operosa, asseriva Fellini stesso, che per lui era l’ideale per creare, per avere libera identità, ecco il perché amava farsi chiamare per nome da chiunque, tanto che tutti sembravano suoi grandi amici.

 

Sabato 8 novembre, è intervenuto il critico francese, collaboratore dei Festival du Louvre, produttore e distributore di film, Dominique Païni, che puntualmente apporta il suo intervento, che quest’anno verte su “Fellini e il cinema francese”. Egli, asserisce non esserci stata una vera e propria influenza intellettuale del cinema felliniano in Francia, se non nell’ultimo periodo in cui ci sono state delle ascendenze, ma piuttosto negative e barocche. In Spagna invece interviene il critico e professore di Storia del Cinema all’Università di Girona, Āngel Quintana, il cinema del maestro è giunto tardi, mal interpretato dalla censura franchista e proiettato in sale d’essai; successivamente, la penisola iberica, visse una crisi di memoria storica a causa della militanza post-moderna, quindi considerarono il cinema di Fellini arcaico, superato perché legato al passato che si voleva cancellare.

L’intervento del regista Peter Greenway, è stato potente, ha decretato la fine della settima arte, solo dopo 108 anni di attività, asserendo a gran voce gli stimoli ed il nutrimento ricevuti dal cinema di Fellini, e che la cultura filmica del regista italiano, non nasce da un testo, è senza letteratura, non vogliamo, dice l’inglese, “un film che sia un’ala di libreria!”. Il cinema del maestro, era poesia visiva, percettiva, secca, un cinema per immagini. Greenway, si riallaccia alle teorie di Bazin, che asseriva derivare il cinema da musica e pittura. Ciò che per il regista inglese è importante del cinema del riminese, è che egli ha basato il suo cinema sull’immagine e non sul testo, asserendo che Fellini, ci ha traghettati molto avanti.

 

Peter Grenaway

 

Tatti Sanguineti, si occupa di cinema, e lavora anche alla Radio, ha definito Fellini come un virus, egli attaccava il morbo del cinema a tutti coloro che collaboravano con lui! Sanguineti, ha portato un video di 15’, in cui si parla del fenomeno LA Dolce Vita, in quanto appare un Fellini anticipatore di un fenomeno, era un lungimirante, come Bernardo Bertolucci racconta nel video: “Fellini, ha inventato un mondo che non esisteva, lo stesso nome paparazzi. La realtà con Federico, ha imitato l’arte”. Il film La dolce vita, ha fatto decidere Bernardo di volgere la sua vita al cinema, alla regia. Milo Manara, creatore di fumetti, racconta del suo rapporto artistico con Fellini, quando insieme progettavano la trasposizione in fumetti de “Il viaggio di Mastorna”, il simbolo del viaggio nel mondo felliniano è spesso presente, quasi un simbolo apotropaico. Quelli che creava sulla carta, erano tutti momenti visivamente importanti, Fellini faceva il suo bozzetto, e poi lo sottoponeva a Manara, dandogli specifiche delucidazioni in merito a colori, disposizione; sorta di messa in scena. Questo Mastorna, è stato come una profezia, in quanto ha coinciso con l’ultimo lavoro di Federino Fellini, film mai realizzato se non in questi fumetti, ma che il maestro stesso considerava film pilota per eseguirne altri. Grezzi, autore di trasmissioni quali Blob, Fuori Orario ed altre ancora,  narra al consesso, di quando Fellini gli disse che “era bello avere un film da non fare, era un buon alibi”, riferendosi proprio al famoso viaggio di Mastorna. Gli svelò ancora, che quando usciva un suo film, egli era imbarazzato, in quanto nudamente esposto. “Paura del darsi, dell’essere trasparente rispetto alla propria intimità”. La cinematografia finale di Fellini, è tutta una fine che non vuole terminare, senso di intensità negativa.

Altra chicca presentata a questo convegno, è stata la proiezione di 51’ del lungometraggio di Mario Sesti, dal titolo L’ultima sequenza, proiettato a Cannes durante i festeggiamenti felliniani, ottenendo successo di pubblico e critica, come è avvenuto qui a Rimini. La pellicola verte sull’indecisione che Fellini ebbe, riguardo la sequenza finale di 8 ½, di cui non si ha più traccia alcuna. I personaggi vestiti di bianco seduti in un elegante vagone ristorante, stile Orient Express, dove andavano? Viaggiavano verso l’ignoto, era un viaggio apotropaico, come quello probabilmente di Mastorna, un viaggio simbolico verso la fine?A tutti questi possibili quesiti non è semplice rispondere, e Sesti cerca di farlo, attraverso le testimonianze di coloro, che hanno collaborato al film e all’attuazione di questa sequenza, cambiata all’ultimo momento, senza dire nulla a nessuno, ma come la Wertmuller (collaboratrice nel film) afferma: “La scelta che Federico fece, fu l’ideale, è stato un superare la sua stessa crisi, un vero atto d’amore nei confronti della vita!”. Sesti anima le foto di Bachmann, danandogli movimento, attraverso un fotoritocco; monta, tra loro spezzoni di interviste che nel ’64 Gideon Bachmann, rivolse al regista e a Mastroianni, ad interviste che lui stesso ha girato con i collaboratori di Fellini, fonici, scenografi, costumisti, aiutoregista, attori.

Questo consesso, ha scaturito un vero e proprio tesoro di testimonianze, che aiuta a comprendere al meglio il Fellini-uomo, la sua personalità multiforme, sensibile, ed il lungimirante modo che ebbe nel fare cinema. Fellini “benefattore dell’umanità” come Mollica lo ha definito; un uomo che ha vissuto appieno la propria fantasia, sezionando gli strati della mente per ottenere una analisi profonda del sociale, partendo dall’esperienza personale.