il restauratore

di Giorgio Capitani e Salvatore Basile

con Lando Buzzanca, Martina Colombari

altri interpreti: Paolo Calabresi, Beatrice Fazi

 

di Matteo MINERVA

- il restauratore

Anno nuovo Fiction vecchie. Rai 1 apre l’anno puntando su Il Restauratore, una nuova serie Tv che ripropone ancora una volta un modello di fiction caro alla Rete e che troppo sa di già visto: buonismo di matrice cristiana; storie banali e infantili dal messaggio rassicurante e smaccatamente didascalico; superficialità nell’affrontare personaggi e tematiche, distanti anni luce dalla contemporaneità che dichiarano di voler rappresentare.

Basilio Corsi è un ex poliziotto che ha dovuto scontare venti anni di galera per l’omicidio di due rapinatori che avevano ucciso la moglie incinta. Uscito di galera, trova lavoro come Restauratore nella bottega di Maddalena, un’inadeguata Martina Colombari, al cui cospetto Buzzanca sembra Gassman. Toccando alcuni oggetti, Basilio, scopre di avere il dono di poter presagire imminenti disgrazie e di poterle sventare.

A produrre il Restauratore insieme a Rai Fiction, è la Albatross Enterteiment di Alessandro Jacchia e Maurizio Momi. Jacchia, il produttore del longevo Don Matteo (sue le prime tre stagioni) ha lavorato anche a soggetto e sceneggiatura delle sei puntate del Restauratore, che andranno in onda in prima serata, da Domenica 8 gennaio. Jacchia sembra aver trovato l’alter ego di Terence Hill in Lando Buzzanca, protagonista della serie nei panni dell’ex detenuto Basilio Corsi. L’esperto produttore non ha fatto altro che togliere l’attempato abito talare che sfoggiava il buon Don Matteo nelle prime stagioni e spostarsi da Gubbio alla Roma trasteverina. Al posto del prete ha messo un ex detenuto, un tempo poliziotto, e per il resto è tutto uguale: una saggezza spicciola fatta di luoghi comuni  e consolatorie frasi da prete del tipo “nessuno e inutile” o “non devi confondere la vendetta con la giustizia” sono le armi di Buzzanca che servono a sventare il tentato suicidio di un infermiere, straziato dalla crisi economica, che lotta per un contratto a tempo indeterminato o a redimere un’aspirante cantante che vuole vendicarsi, facendo del male alla sua rivale, delle crudeli logiche dello spettacolo che non premiano il merito ma l’effimera apparenza.

La ventata di novità alla base del  Restauratore, dovrebbe essere l’elemento fantastico verso cui la serie si orienta, ricollocandolo nell’alveo  più tradizionale della fiction investigativa.

Ma anche quello che c’è di nuovo, è in realtà la copia in peggio, di qualcosa di vecchio e per altro nemmeno eccelso. Il richiamo taciuto a serie americane come Medium e The Dead Zone non fa altro che mettere in luce la cifra banalizzante con cui la televisione italiana attinge a realtà più vitali. Risulta così evidente il modo in cui Rai Fiction pensa alla televisione, tanto nei contenuti che nella forma. Basta una puntata di Boris per trovare descritta l’ideologia di fondo che anima questi progetti, palesemente ancorati a un modo rassicurante e bonario di raccontare il mondo e a un ruolo di sciatto intrattenimento da destinare a quello che chiamano “pubblico trasversale”. Tanto che il primo episodio del Restauratore  finisce addirittura, alla faccia dell’innovazione del linguaggio, per copiare in maniera esplicita e sciatta a Cantando sotto la piaggia in un happy-ending altamente inverosimile. E pensare che Jacchia in conferenza stampa scomoda la celebre “luccicanza” (terribile italianizzazione) di Kubrick per descrivere Il Restauratore, per non parlare di Buzzanca che per parlare dei valori concreti su cui si fonda il suo personaggio, per cui l’indifferenza è una colpa, arriva a scomodare Gramsci, cristianizzando subito dopo il suo messaggio.

La regia di Giorgio Capitani e Salvatore Basile si muove goffamente nel maneggiare una sceneggiatura zeppa delle peggiori e, in era post- Lost,  ultraobsolete scelte drammaturgiche, tipiche delle migliori (e solo per assenza di rivali più validi) serie nostrane: dalle voci over che doppiano pedantemente quanto lo spettatore ha appena visto ai personaggi che parlano da soli ad alta voce con lo scopo di spiegare allo spettatore quello che stanno facendo, fino alle lunghe tirate liriche dell’eroe positivo come panacea dei mali contemporanei.

La prima puntata del Restauratore, proiettata in anteprima Giovedì  5 gennaio, offre un mondo fatto di ragazzi degni di vecchie commedie rosa anni Cinquanta(purtroppo tipici di troppe fiction); feste universitarie che, in tempi di tagli, sembrano l’MTV Academy Awards, in cui studenti perfettini ondeggiano estasiati come quindicenni al concerto dei Tokyo Hotel, di fronte al loro idolo musicale che sembra Jem delle Holograms; e soprattutto si rifà ancora a quei personaggi stereotipati che trasmigrano da una serie all’altra: Caterina Guzzanti veste i panni di un poliziotto ingenuo e simpatico, troppo simile al Nino Frassica di Don Matteo, e Paolo Calabresi, l’amato Biascica di Boris, interpreta la maschera più trita del romano bonaccione.

E dire che la presenza dei due attori, protagonisti della miracolosa apparizione di Boris, sembra quasi un monito meta-televisivo a tutto ciò che di peggio c’è nella Tv e nel Restauratore. Probabilmente però, tra il pubblico del Restauratore, solo in pochissimi, forse, vedranno un qualche monito ipertestuale, per il semplice fatto che il “pubblico trasversale”, a cui si è fatto riferimento nella conferenza stampa seguita all’anteprima, non è poi così trasversale: chi vede il Restauratore non è chi vede Boris.

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di Giorgio Capitani e Salvatore Basile
con Lando Buzzanca, Martina Colombari