international film festival
41.ma edizione

Rotterdam, 25 gennaio / 05 febbraio 2012

 

recensioni

di Marco GROSOLI

> 38 TEMOINS di Lucas Belvaux

> A VINGANçA DE UMA MULHER di Rita Azevedo Gomes

> ACE ATTORNEY di Miike Takashi

> chapiteau show di Sergei Loban

> i wish di Hirokazu Kore-Eda

> ROOM 514 di Sharon Bar-Ziv

> UN AMOUR DE JEUNESSE di Mia Hansen-Lowe

 

ACE ATTORNEY
di Miike Takashi
Giappone 2010, 135'

 

Spectrum

27/30

Dopo aver rifatto alcuni classici del cinema nipponico (13 assassini, Harakiri), Miike imprime alla propria torrenziale carriera un'altra sterzata delle sue, e adatta per lo schermo Ace Attorney, videogioco che vede protagonista l'ancora acerbo avvocato Phoenix Wright alle prese con i suoi primi casi, il ben più quotato collega Miles Edgeworth e il loro coetaneo borderline Larry Butz. Il secondo viene ingiustamente accusato di omicidio, e gli altri due si mobilitano per salvarlo: questo è però solo uno dei molti casi che si incastrano l'uno dentro l'altro, e che il film “sfoglia” a folle velocità. L'aula del tribunale diventa così un ambiente fintamente chiuso ma in realtà infinitamente poroso e passibile di farsi attraversare da mille e mille guizzi estemporanei – quelli per cui Miike è famoso e apprezzato internazionalmente ormai da una quindicina d'anni – che lo aprono di continuo.

Chi conosce la fase più recente del cinema di Miike non rimarrà sorpreso da quello che è il “pivot” dell'operazione, il centro intorno a cui ruota: la assoluta imprevedibilità con cui l'impensato immaginativo degli effetti speciali irrompe nella “realtà” del film. Ad ogni momento, un qualche ambaradan digitale può entrare in scena, ribaltare una situazione, imprimere una svolta improvvisa: di spiriti, lo spazio è stracolmo, e siamo in balia delle loro irruzioni tanto quanto il filo narrativo è in balia di una valanga di dei ex machina. Anzi, praticamente è fatto solo da quelli: è tutto uno sfogliarsi di dei ex machina, uno dopo l'altro. La disinvoltura con cui da un momento all'altro saltano fuori queste inversioni a U è pari solo alla disinvoltura con cui Miike piazza dove meno ce l'aspettiamo bizzarrie estemporanee (pupazzi giganti che spuntano dal nulla in punti decisivi della trama), deviazioni scenografico-costumistiche di sfacciata incoerenza (il mondo ritratto è “quello normale”, ma i capelli dei personaggi sono quelli ultracaricaturali e fumettistici del videogioco), contorsioni narrative spericolate.

Il valore del film sta principalmente qui: nel modo in cui quello che a prima vista ci sembra un accumulo scatenato di invenzioni che si succedono a folle velocità, selvaggiamente compresse senza troppo curarsi di quanto “arriva” allo spettatore, si ribalta impercettibilmente in un tradizionalissimo dramma legale. Dietro l'angolo, c'è sempre “qualcosa che non vediamo” e che cambia tutto; ciononostante, proprio abbracciando fino in fondo questo spregio sfacciato della consequenzialità causa-effetto troviamo un altro tipo di logica. Non l'arbitrarietà senza freni. E la cosa non sorprende: proprio la carriera di Miike, con quegli ultimi remake che abbiamo citato all'inizio, esemplifica in pieno quanto, alla fine del tunnel dell'anarchia più disinibita, ci attenda inevitabilmente al varco il più ortodosso e tradizionale dei classicismi.

38 TEMOINS
di Lucas Belvaux
Francia/Belgio 2012, 104'

 

Spectrum

28/30

Un omicidio, di notte, davanti a un condominio di Le Havre. Nessuno ha visto o sentito niente. Tranne Pierre, pilota navale che lavora al porto locale. Il quale, nel tentativo (vano) di espiare la propria ignavia, mette in piazza quella di tutti: quella dei 38 testimoni (lui incluso) che hanno sentito urlare lungamente la vittima prima di spegnersi, senza che nessuno accorresse. Lo farà grazie anche ai media che amplificano la cosa, ma decisamente contro la disillusione cinica della polizia, che ritiene più fruttuoso insabbiare tutto. Non ne ricava nessun eroismo: la sua vita è comunque distrutta, e la sua compagna, all'inizio caparbiamente decisa a sostenerlo, lo abbandona. Ma lui lo sa: è l'unica cosa che può e deve fare.

Non è un film di genere, non è un giallo, l'assassino non ha alcuna importanza. Belvaux, piuttosto, come spesso fa, si serve del genere per arrivare a ciò che gli interessa. E quello che gli interessa è questo: dopo la sparizione del cinema (e dei generi cinematografici?), strettamente legata a quella della comunità dal momento che i “cittadini” (attivi per definizione) sono stati sostituiti da un ammasso di spettatori passivi, c'è ancora un'occasione per conservare una qualche dimensione comunitaria. E questa occasione consiste nell'ammettere dolorosamente, celebrandola apertamente, la propria passività, la passività appunto di tutti, comune. E nel consumare attivamente (proprio come si consuma un ghiacciolo al sole) quell'illusione che è “il privato”.

Perché oltre a non essere una pellicola di genere, 38 temoins non vuole nemmeno essere un film “di personaggi” incentrato sul rapporto tra Pierre e la sua donna, inesorabilmente schiacciato sotto il peso del rimorso e dell'impotenza. Magari all'inizio lo fa pensare – poi però il film si mette a cambiare un punto di vista dopo l'altro, oscillando tra un personaggio e l'altro. Ciò che ad esso interessa mettere a fuoco non è questo o quel personaggio – nemmeno Pierre, che non viene ritratto affatto come un eroe, nonostante Belvaux tenda un po', in questo come in altri casi, a farsi affascinare da un “misticismo da aristocrazia operaia” un po' facile. No: ciò a cui guarda l'occhio del film è tutti. Perché il fulcro del film è una comunitarietà perduta, ma ritrovata in quanto perduta appunto da tutti e per tutti. 38 temoins infatti culmina in una lunga, straziante scena in cui, coordinati dalla polizia, tutti i 38 “renitenti” ricostruiscono il fattaccio per agevolare le indagini. Una catarsi strettamente comunitaria in cui si scioglie l'angoscia stagnante che ha permeato fino a quel momento tutto il film, fatto di indugi cupi, densi, uggiosi su un buco nero che non è più solo “cronaca nera”, ma qualcosa che riguarda tutti. Il cinema, sembra dirci Belvaux, può ancora toccare questo “riguardare tutti”, a differenza dei rituali ecclesiastico-mediatici (ben presenti nel film) che si fermano a una inconcludente rimozione collettiva.

i wish
di Hirokazu Kore-Eda
Giappone 2012, 128'

 

Spectrum

27/30

Nel 2004, Hirokazu Kore-Eda aveva incantato Cannes con il suo Nobody Knows, uno sguardo sull'infanzia di sorprendente novità e freschezza, capace di guardare in faccia anche i lati problematici di quell'età (come la sua soavità innocente che è anche, inseparabilmente, indifferenza davanti alla morte). Oggi torna a quel mondo con I Wish, offrendo per così dire una spiegazione più scopertamente narrativa di ciò che nel film del 2004 veniva alluso per sola, portentosa virtù di stile.

Due fratelli che frequentano le scuole elementari, quasi coetanei ma di opposto carattere, separati e messi in città diverse dopo il divorzio dei genitori (giovani e tutt'altro che responsabili, anche se la madre perlomeno ci prova), organizzano un fugace incontro (senza dirlo ai genitori) in un villaggio in cui si presume due nuovi treni ad altissima velocità debbano passare l'uno accanto all'altro: secondo una non troppo attendibile leggenda, l'energia che si sprigionerebbe dallo sfiorarsi dei due convogli è sufficiente a far avverare i desideri espressi ad alta voce da chi li guarda mentre passano. Poi, come i due treni, i due fratellini continueranno ognuno nella propria opposta direzione.

Il “centro” del film è probabilmente l'autentica ossessione che uno dei due bambini nutre per il vulcano che affianca la sua città, il quale erutta, fa uscire fumo, e chissà che prima o poi (come lui stesso vorrebbe ardentemente) non esploda seppellendo tutto. È questo il desiderio che (non) esprime davanti ai treni. E in un qualche modo esso si avvera, anche se solo virtualmente. “Virtualmente”, qui, significa “grazie a come Kore-Eda costruisce le sue immagini”. Il suo stile aderisce perfettamente alla prospettiva “post-catastrofe” che da sempre, da ben prima dello tsunami, siamo abituati ad associare al Giappone. Perché le sue inquadrature riescono a concentrarsi sul momento presente-qui-ed-ora raffigurandolo non come uno sbocciare vitale che prorompe da chissà dove (prospettiva questa assai più aristotelico-occidentale), ma come un agitarsi appena percettibile all'interno di una rarefazione (ottenuta grazie alla frontalità, alla distanza, alla geometria) che in qualche modo contempla come “già sterminata” qualsiasi cosa si trovi all'interno del quadro. Kore-Eda insomma concepisce I Wish come uno sfogliarsi di attimi presenti (e nel suo momento culminante, cioè quando arrivano i treni, il film stesso ce lo dice con estrema, inequivocabile chiarezza), ognuno tendenzialmente chiuso in se stesso e apparentemente privo di sviluppi ulteriori, la “presenza” dei quali, tuttavia, anziché darsi in tutta la sua fragranza si dà come congelata nel proprio bozzolo. Parallelamente a questo anomalo sfogliarsi, Kore-Eda costruisce un fine tessuto romanzesco di cui solo alla fine vediamo comporsi un quadro globale coerente, quando le vicissitudini dei molti personaggi intorno ai due protagonisti, che si avvicendano senza soluzione di continuità, in maniera quasi distratta, ondivaga e semi-indifferente, a pennellate morbide ma veloci, finiscono per coagularsi insieme e per illuminarsi le une con le altre.

In altre parole, è il film stesso ad andare su due treni lanciati in direzione opposta: una è quella dell'architettura narrativa, del costruirsi inesorabile del racconto – l'altra è quella della magia del presente, in tutta la sua inafferrabilità. E non è un caso. Per entrambi i fratellini, pur in modo diverso, diventare grandi significa trovare un modo per coordinare (come non hanno saputo fare i genitori) la “presenza nel presente” (prerogativa dell'infanzia) e il fare progetti che si estendono nel tempo.

chapiteau show
di Sergei Loban
Russia 2012, 207'

 

Bright Future

26/30

Una nuova opera di Sergei Loban la si attendeva fin dal 2005, ovvero dai tempi del suo sorprendente esordio bizzarramente fantascientifico Dust. Con Chapiteau Show, Loban sceglie di inserirsi in quella serie di film (come gli ultimi di Sergei Loznitsa e Alexei Balabanov) che, di recente, hanno avuto il pregio di dire l'essenziale (politicamente) della Russia di oggi trovando ed esponendo una qualche quadratura del cerchio stilistica tra caos e ordine (il cui misterioso e insidioso accordo è appunto il segreto dell'egemonia putiniana degli ultimi anni).

Chapiteau Show è infatti un film che a prima vista vuole apparire folle e scatenato, per poi chiudersi, lungo le tre ore e mezza della sua durata, in un perfetto congegno narrativo, dove tutti i molteplici incroci tra i personaggi quadrano impeccabilmente. Quattro storie parallele (amore, amicizia, rispetto e partenariato), ognuna delle quali destinata a finire rovinosamente, che si svolgono simultaneamente in una manciata di giorni nel quadro di un'affollata località balneare nella Crimea dell'alta stagione turistica. Praticamente, l'inferno. L'infelice incontro in carne ed ossa tra due piccioncini che fino a quel momento hanno tubato solo su internet; un'amicizia tra sordomuti che si disgrega ineluttabilmente; un padre che con la sua esuberanza rovina la vita al figlio; un giovane produttore fresco di studi in comunicazione che crede invano di poter costruire una star della canzone straparlando di postmoderno e di cascami baudrillardiani. In determinati punti del proprio svolgimento, ognuna delle storie incrocia fuggevolmente le altre, con una precisione e una cura delle sincronie che fa pensare a un capacissimo vigile urbano, prima ancora che a un regista.

A inframezzare il tutto, siparietti kitsch sul palcoscenico del “Chapiteau”, un tendone in mezzo al nulla dove ognuno dei personaggi si mette a nudo in musica e con ballettini scrausi, esibendo la propria ontologica inadeguatezza. E proprio questo è il perno “post-pop” su cui ruota l'intero film. Perché l'ultima parte, con il saccente produttore in vena di quisquilie postmoderne, è un chiaro autoritratto attraverso cui il film stesso “denuda” le proprie intenzioni, le mette in chiaro. Non a caso, è proprio quel produttore a far divampare le fiamme nel tendone alla fine di ognuna delle vicende parallele, fiamme con le quali si conclude ognuno degli episodi. È lui, infatti, ad essersi imbarcato a forza di marketing fai-da-te nella “costruzione di una star” (un sosia di Tsoi, arcinota star locale) da zero – in altre parole, a colmare lo scarto tra ciò che un dato soggetto è e quello che dovrebbe essere, tra lui/lei e la sua stessa collocazione. Proprio questo scarto e la sua incolmabilità è ciò che glorifica e celebra il surreale teatrino “Chapiteau”; sicché, “personificandosi” nella figura fallimentare del produttore “piromane”, è come se il film ci dicesse “guardate: proverò a riempire lo scarto kitsch tra ognuno di questi grotteschi individui e se stesso, facendo di ognuna di loro una star, ma non ci riuscirò, perché è la società (russa) stessa, al di fuori del mio film, a funzionare così, e a stare in piedi grazie a questa inadeguatezza individuale che in qualche modo accomuna tutti”. Il pessimismo fatalista che il film esibisce (tutte le relazioni umane sono votate allo scacco, punto e basta) si ribalta nel momento in cui viene riconosciuto in questa comune inadeguatezza un collante societario attivo, un brulicare umano a suo modo saldamente coeso proprio nel suo stesso sfaldarsi universale, come illustrato da ciò che avviene in queste tre ore e mezza nella località balneare della Crimea che ospita il film, piena di strana gente urlante, rissosa, regolarmente sopra le righe e spesso ubriaca.

La macchina di presa segue i personaggi senza troppo curarsi della precisione dell'inquadratura, per non parlare delle luci prudentemente piattissime. Ma non è un film sciatto. Anzi, il problema è l'opposto. Ogni scena esibisce una frattura (un oggetto che cade, un'intrusione improvvisa) nei punti drammaturgicamente più prevedibili e prevedibilmente proficui. Più in generale, il film, per quanto inventivo e divertente, è un congegno narrativo troppo perfetto, troppo calcolato, troppo a orologeria, troppo artatamente “cult”, nonostante la sua apparenza di scatenata fiera delle stranezze.

UN AMOUR DE JEUNESSE
di Mia Hansen-Lowe
Francia 2011, 110'

 

Spectrum

28/30

“Il solito film francese. I soliti dialoghi, i soliti personaggi...”. “Non capisci proprio niente”. Questo scambio di battute tra i due protagonisti di Un amour de jeunesse all'uscita di un cinema potrebbe adattarsi particolarmente bene a questa opera terza della brillante regista franco-svedese.

La storia, certo, sembrerebbe aderire alla perfezione a ciò che mediamente ci si aspetta da un film francese “giovane”. Camille, che nel 1999 ha quindici anni, si innamora perdutamente di un diciannovenne che però, dopo un breve e intensissimo idillio estivo, se ne va in Sud America. Lei dunque si (ri)fà una vita, si butta con successo nell'architettura e si mette con un professionista del settore. Poi, però, ricompare Lui. E la dura scorza che aveva imparato a ostentare si scioglie come neve al sole, ripiombandola in un'adolescenza che sembrava superata.

Non si tratta, però, di “un film francese come tanti”. Nessuna psicologia, nessuna profondità dei caratteri: al centro del cinema di Mia Hansen-Lowe, c'è il tempo, e soprattutto le fratture di cui esso è costellato. Il lavoro “carsico” dei suoi traumi e dei suoi ritorni inattesi. I suoi primi due film (Tout est pardonné e Le père de mes enfants) erano caratterizzati dalla morte del protagonista a metà film, seguita dal riverbero di ciò che rimane della sua presenza sugli altri personaggi. Qui il quadro si complica. A un quarto di film, Lui scompare per poi ricomparire quasi un'ora dopo. E poi scompare ancora. Lo schema che ha reso il cinema della Hansen-Lowe uno dei più interessanti del panorama francese viene insomma modulato, complicato, variato; diventa frastagliato e irregolare. Ma sempre di fratture si tratta. Qui, tuttavia, non ci si accontenta della discontinuità, ma si cerca altresì di focalizzarsi sulla (illusoria) continuità del tempo. Gli indicatori temporali (anni, mesi, giorni) sono ossessivamente presenti; il racconto indulge volentieri nella condensazione di mesi e anni in poche inquadrature sintetiche; il susseguirsi delle stagioni offre le coordinate di base della struttura del film. La macchina da presa segue con molta precisione il movimento degli attori (come vuole l'abc del “cinema francese giovane” - non è un caso se l'ex compagno della regista è Olivier Assayas), ma turba la facile linearità dei piani disseminandoli di zone opache, di nuche, di aloni di inespressività. I piani in movimento della Hansen-Lowe sono insomma, spesso, piccoli labirinti, frasi visive di raffinata segmentazione che problematizzano il semplice “stare addosso ai personaggi”, ritraendoli essi stessi come una materia discontinua. Analogamente, la sua direzione degli attori consiste in un gioco molto sottile tra la loro espressività e il sostrato di “ottusa” inespressività che coesiste con essa. Non a caso, la lezione in cui appare per la prima volta il prof insieme a cui si metterà Camille illustra proprio che la trasparenza della luce non esiste senza opacità. E i risultati raggiunti in questo senso dall'attrice principale Lola Créton sono davvero maiuscoli: la maschera di durezza che assume per nascondere il trauma dell'abbandono del suo “amore di gioventù” non smette di vacillare, così come l'amore originario non smette mai di essere presente anche dopo la sua scomparsa. Più in generale, il film inizialmente marca stretto il tempo estatico dell'amore tra i due giovanissimi protagonisti – poi, come Camille, si butta a capofitto nella sua rimozione, marcando stretto il tempo “indifferente” della sua assenza (la scuola, i viaggi, il lavoro...). Ma non smette mai di complicare in ogni microscopica piega del film questa illusoria contrapposizione.

Per avere ragione del tempo, non basta, come lo spasimante di Camille, essere fotografi – bisogna essere, come lei, architetti, immergersi in quella negazione “in atto” del tempo che è lo spazio. Poi però il tempo riaffiora sempre: la lotta con esso non si quieta mai, e infatti il film si chiude con una splendida visualizzazione di come “scorrere” insieme il tempo pur guardando a ciò che rispetto ad esso va in direzione contraria.

room 514
di Sharon Bar-Ziv
Israele 2012, 87'

 

Bright Future

25/30

Una donna-soldato, tostissima, interroga un commilitone accusato di angherie e soprusi in un posto di blocco. Costui, però, fa un nome – ed è un nome pesante, quello di uno degli ufficiali più importanti e rispettati. È lui ad aver abusato della sua posizione infliggendo violenza agli inermi palestinesi al posto di blocco. Ma è talmente potente che, se venisse incriminato, le ripercussioni sui suoi inquirenti potrebbero essere molto, molto pericolose. La soldatessa, nonostante gli ammonimenti dei colleghi (fra cui il suo amante), è decisa ad andare fino in fondo.

Un dramma da camera, quasi tutto girato nelle minuscole stanzette di una caserma – specialmente la camera 514. La macchina da presa sta addosso alla pelle e ai pori dei personaggi, non senza mirabili acrobazie, per cavarne fuori espressività come si cava il sangue dalle rape. E in questo senso, il film funziona bene: è un esercizio di tracotanza attoriale degno di migliori occasioni. Se questa non è, invece, una delle migliori occasioni, è perché la cornice narrativa è inadeguata. E lo è perché si affida troppo a ribaltoni drammaturgici ad effetto – ad esempio, di punto in bianco, l'amante della protagonista decide di non aiutarla di più, per nessun altra ragione, in ultima analisi, che per alzare bruscamente l'adrenalina del racconto. Fino al punto culminante e quasi conclusivo, ovvero il meno perdonabile di questi ribaltoni narrativi: il suicidio del potente (ma giovane e, sotto l'usuale scorza maschilista, fragile) ufficiale in vena di violenze gratuite. Un fatto che sconvolge profondamente la protagonista, e le farà passare (dopo i titoli di coda) parecchi guai. Perché, a quanto pare, le ripercussioni del fattaccio sull'esercito tutto saranno molto gravi.

In altre, più crude parole: la protagonista si batte per la verità, e sbatte il naso violentemente contro il fatto che la verità non è tutto, e ci sono leggi non scritte (e che spesso vanno in direzione contraria rispetto alle leggi esplicite) che è molto pericoloso infrangere. Per esempio che i codici militari si possono, qua e là, tranquillamente trasgredire per ragioni “di sicurezza interna”, e che un po' di violenza gratuita qua e là fa solo bene.

Diciamocelo: questa prospettiva machista/militarista è un po' rivoltante. Ed è questo il problema di un film pur capace e a suo modo brillante come Room 514. Certamente, il punto di vista (maschilista e militaresco) che il film vuole ritrarre non è per forza “il punto di vista del film”. Però Bar-Ziv su questo ci gioca in una maniera furbetta, mai limpida, troppo ambigua. Fin dalla prima scena (un flash-forward strettamente ingiustificato con la protagonista in lacrime), il film ricorre a mezzucci per sottolineare con la penna rossa la femminilità del personaggio principale: si fa costellare da svariati inserti in bianco e nero in cui lei è vista fragile e “nel suo privato”, fa squillare ripetutamente il suo cellulare con telefonate triviali della madre, e via di seguito. Ma se ci tiene così tanto a sottolineare, e anche a sposare empaticamente, la femminilità della protagonista, è solo per farle ricevere la mazzata nei denti dell'ultima sequenza, in cui un maschilistissimo, cattivissimo deus ex machina arriva in scena a farle sapere che il suo savoir faire femminile abilmente mescolato all'irruenza maschile non l'ha portata ad altro che a un mare di guai. L'ordine è ristabilito, il fallo torna a trionfare. Tutto ciò è abbastanza sospetto, e sinistramente maschilista.

In fondo, però, questo esito era già iscritto nelle coordinate fondamentali del progetto. Il quale alterna seccamente le scene con gli interrogatori e quelle tra la protagonista e il suo amante. Compresa una bollente scena di sesso che la cinepresa filma analiticamente dall'inizio alla fine. Ed è significativo assai: gli interrogatori stessi sono sfacciatamente sessualizzati, e pulsano di una tensione così grande da essere, di fatto, erotici. Più in generale, è il film stesso che appare come fosse nel suo complesso un unico rapporto sessuale: utilizza una donna-maschiaccio per confondere momentaneamente la differenza sessuale - ma solo per poterla confermare, a seguito dell'”orgasmo”, in un modo tanto più inappellabile.

A VINGANçA DE UMA MULHER
 di Rita Azevedo Gomes

Portogallo 2011, 100'

 

Spectrum

29/30

Sanamente pazzoide e irregolare, il cinema di Rita Azevedo Gomes è fin dall'inizio sempre fluito entro i solidissimi argini del cinema portoghese “di serie A”, quello dei De Oliveira e dei Paulo Rocha. È come se la regista volesse “rifare” i Maestri con una vena sfuggentemente inventiva, imprevedibile, sfacciatamente estetizzante e financo “frufru”, che è facile ma non inesatto qualificare come strettamente femminile.

Perciò, anche stavolta, se il film prende le mosse da un racconto di Barbey d'Aurevilly, è fondamentalmente per guardare agli “amori frustrati” del cinema di De Oliveira. Un annoiato dandy di mezz'età incontra una prostituta, solo per scoprire che costei era una nobildonna fuggita dal potente marito dopo che quest'ultimo ha fatto uccidere l'incolpevole amato di lei. La sua nuova vita “perduta” è insomma una crudele espiazione che la donna si auto-infligge per riempire l'incolmabile vuoto lasciato dalla morte dell'amato. Ma soprattutto una raffinata forma di vendetta contro l'ex marito che le ha rovinato la vita.

Il film si compone di una perfetta costruzione ad anelli concentrici: il centro è il racconto della donna, la cornice appena esteriore è l'incontro amoroso tra lei e il dandy, quella ancora fuori è data dalla stanca esistenza del dandy, e per finire, sulla soglia stessa del film (inizio e fine) il Narratore che si rivolge direttamente agli spettatori in mezzo a un bel po' di trovarobato scenico di quello che sembrerebbe il “dietro-le-quinte” di un teatro. Il Narratore, però, irrompe anche in altri punti del film, scompigliando le carte della partita verità-artificio in perfetta ottemperanza ai dettami barocchi dei Maestri lusitani. Va dato però atto alla Azevedo Gomes che queste interferenze tra verità e artificio (fondali dipinti, quinte teatrali, “porosità” del confine tra racconto-nel-racconto e ambiente “vero” del narratore che lo pronuncia) si verificano spesso proprio là dove non ce le si aspetterebbe. Il risultato è freschissimo, quasi entusiasmante, lontanissimo comunque dal manierismo banale di un Eugène Greene (altro oliveriano sfegatato). La Azevedo Gomes sa quali pezzi del racconto conviene amplificare, gonfiare, magnificare figurativamente, magari a discapito della fluidità narrativa, ma raggiungendo infine l'irresistibile “pensosità”, grave e lieve al tempo stesso, dei Maestri portoghesi. La cineasta sa, in definitiva, in quale maniera “corteggiare” la letteratura e il teatro porti diretto al Cinema, attraverso le magie della Messa In Scena, che padroneggia peraltro benissimo. Si veda per esempio come risolve, con un riuscitissimo, stratificato, poliedrico gioco di specchi (anzi una danza a due, a turno, davanti agli specchi) nella stanza della donna, il complesso rapporto simulacrale tra i due (il “cliente” è solo un sostituto dell'amante morto; la donna è solo l'ombra celeste della prostituta che dovrebbe essere, etc.).

Insomma, un film inevitabilmente derivativo (i modelli della Azevedo Gomes sono evidentemente De Oliveira e affini), ma riscattato da una stupefacente perizia teatrale-letteraria. Da scoprire piega dopo piega, invenzione dopo invenzione, nella sua malinconica bizzarria, quella di chi si sente addosso un corpo da scontare e non da vivere. Eccola, la lezione che il dandy impara dalla prostituta/nobildonna. Ma in fondo questo appassionato viaggio (teatrale, letterario... infine, cinematografico) dentro le spire della “lettera” ci dice la stessa cosa, nei confronti del suo supposto “spirito”.

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Rotterdam, 25 gennaio / 05 febbraio 2012