Presentato al Sundance Film Festival e alla Quinzaine des Realisateurs di
Cannes 2005, WOLF CREEK arriva anche in Italia. Il film (prodotto, scritto e
diretto da Greg McLean) si propone come un ibrido tra horror e thriller,
ambientato nelle insolite location dell’outback australiano. Sarebbe
però imprudente bollarlo come un “semplice” prodotto di genere: fin dai
primissimi secondi, il film ha fretta di chiarire al di là di possibili
equivoci la sua vocazione al realismo, con la didascalia “basato su fatti
realmente accaduti”. In effetti, la fonte di ispirazione di questo film è
l’attualmente ergastolano Ivan Milat, che nella prima metà degli anni
Novanta uccise decine di autostoppisti in giro per l’Australia.
Questa tendenza di aderenza alla realtà si ripercuote in maniera evidente
sullo stile di regia, che viene preso di peso dall’esperienza di Dogma 95,
con tutte le implicazioni ben note che questa scelta comporta: largo uso di
camera digitale a mano, nessun set costruito, luci artificiali pressoché
assenti, niente star nel cast eccetera eccetera. Per quanto McLean rilegga
in maniera volendo anche “sana” (cioè facendone una questione di possibilità
economiche) i discutibili e ideologicamente orientati dettami del Dogma,
purtroppo non riesce a sciogliere (né forse a cogliere) uno dei nodi più
problematici che lo caratterizzano, ossia la pretesa di una aderenza totale
alla realtà, rifiutando il principio secondo cui il cinema è – in quanto
linguaggio – un costrutto arbitrario, e non può che rappresentare una
realtà, e non replicarla.
McLean stesso cade vittima di questo cortocircuito interno tra forma e
contenuto: vuole costruire il suo film come una storia vera, tanto da
chiuderlo con le didascalie sugli sviluppi della vicenda (l’incriminazione
di Ben e il successivo ritiro delle accuse contro di lui), discostandosi
però in maniera palese dall’effettivo andamento del caso di Milat, cui il
film si ispira: in questo modo, l’impalcatura stilistica dell’opera – tutta
tesa verso il referente reale - viene interamente svuotata di significato
dall’ammissione (implicita, ma non poi così tanto) che si tratta solo di
un’invenzione. Questa ricerca spasmodica della verità (quando invece sarebbe
più saggio cercare la verosimiglianza…) porta con sé la sensazione di
trovarsi davanti ad un epigono di THE BLAIR WITCH PROJECT, soprattutto
quando dal nulla salta fuori la videocamera digitale di Ben…
In più quest’“ansia di realismo” porta il regista a perdere di vista anche
la collaudata scialuppa di salvataggio offertagli dai meccanismi di genere:
per esempio si mette a pedinare ostinatamente i tre protagonisti nel loro
viaggio verso l’entroterra australiano, azzerando così del tutto la
componente orrorifica per la prima ora, e di fatto addormentando il film.
Anche l’uso della violenza appare fuori luogo, ora pudicamente oscurato, ora
sbattuto in faccia allo spettatore con ingiustificato e morboso entusiasmo
(basti pensare alla pratica della “testa sullo stecco”, con il coltello che
incide la colonna vertebrale alla base). E l’ambientazione australiana si
riduce a poco più di una gradevole cartolina patinata, tra tramonti
infuocati e distese desolate.
In definitiva la colpa maggiore di McLean, tutto preso dalla sua regia
dogmatica, è quella di perdersi per strada lo spettatore. E in un thriller
non è una colpa da poco.
Voto: 16/30
20:11:2005 |