Willie Stark (Sean Penn) è un giovane “cafone” approdato nella ridente
Louisiana per dare potere e linfa vitale a un popolo sottomesso. Le sue
intenzioni sembrano le migliori, democrazia, riforme e agevolazioni contro i
vecchi padroni del governo conservatore. Nella sua ascesa al potere raccatta
vari personaggi: il grasso e voltagabbana Tiny Duffy (James Gandolfini),
l’affascinante Sadie Burke (Patricia Clarkson), e l’ingegnoso Jack Burden (Jude
Law), giovane giornalista del Cronicle. Ha inizio la dura carriera politica
dell’idealista Stark che, da timido marito timoroso di contrariare la moglie
bevendo alcool, diventa un rampante governatore pronto ad affossare i suoi
avversari coi mezzi più disparati. L’epilogo finale dimostrerebbe la
validità della sua strategia.
Il film di Zaillian (già sceneggiatore di
Schlinder’s List, Gangs of New
York, The Interpreter) pur nella sua generale mediocrità si rivela una
scelta efficace considerato il ventaglio di proposte indecenti che cinema e
multisale tristemente offrono nelle pause festive. Zaillian dimostra
notevole capacità narrativa (non a caso nasce come sceneggiatore), volontà
perentoria di architettare un’impalcatura discorsiva forte, sicura e
motivata, tanto che la tensione e l’interesse alle vicende mostrate rimane
sempre elevato. Del resto la storia dell’ingenuo “redneck” campagnolo pieno
di sogni e ideali giusti benchè utopici (imperdonabile l’accento napoletano
affibbiato a Penn per un’ovvia associazione semantica ma di pessimo effetto
diegetico), che pian piano scavalca i suoi avversari, avvince e coinvolge lo
spettatore più attento, considerata anche l’ottima e adeguata
interpretazione di Penn.
Il punto è che qualcosa non funziona. Sarà la lieve patinatura che si
avverte nella storia intrecciata di Law, giornalista affermato la cui
personalità non riesce mai a definirsi completamente, o i buchi semantici
presenti nella narrazione principale, quella di Stark, la cui grandeur nei
discorsi pubblici, la sicurezza dei gesti e delle azioni coprono la vacuità
di una caratterizzazione psicologica inefficace.
è appunto la psicologia
dei personaggi a vacillare. Gli intrecci articolati, il gioco delle parti, i
piccoli scandali legati alle storie extraconiugali intrattenute dal
protagonista, o legati alla vita reale di personaggi insospettabili come il
giudice Irwin (Anthony Hopkins), fanno pensare ad un grande affresco
dell’America anni ’50, avvallato da un ottimo uso di fotografia e
campi-piani che giustamente sottolineano ambienti e situazioni. L’interesse
del regista è quello di mostrare i diversi volti delle cose, eventi e
persone: il lato utopico nelle intenzioni di Stark stride con le azioni che
compie per completare la sua missione, la dolce Anne Stanton (Kate Winslet),
bellezza eterea e illibata, infanga il suo buon nome accettando l’assegno di
Stark e andando a letto con lui, il giudice Irwin, signore accorato e
inspiegabilmente premuroso con Jack, si scopre macchiato anche lui di
corruzione oltre che di adulterio essendo il vero padre di Law. Ogni cosa ha
il suo lato oscuro, perfino il buon Adam (Mark Ruffalo), l’unico personaggio
apparentemente fuori da strategie poco dignitose, nonché medico umile e
onesto, non pensa due volte a risolvere i problemi implicati da una falsa
telefonata con l’omicidio-suicidio finale. Peccato dunque che delle buone
intenzioni si risolvano in un film incompleto, dove per concludere il puzzle
l’unico tassello mancante è anche quello fondamentale: coerenza diegetica e
semantica.
Remake dell’omonimo film di Robert Rossen (1949),
All King’s Men è tratto
dal romanzo premio Pulitzer di Robert Penn Warren, il quale a sua volta si
ispirava alla storia vera di Huey P. Long, governatore (ex villain) della
Louisiana assassinato nel ’35 e considerato dallo stesso Roosevelt fra gli
uomini più pericolosi del periodo. Insomma gli ingredienti c’erano, ma il
risultato claudica.
Voto: 24/30
04:01:2007 |