UN SOGNO UNA VITTORIA
di John Lee Hancock
con Dennis Quaid e Rachel Griffiths



Non venga il sospetto che il patriottismo yankee - non globalmente statunitense, come sostiene qualcuno a proposito di WINDTALKERS - sia stato riacceso esclusivamente dall'11 settembre e conseguenti ridefinizioni dei campi di battaglia virtuali sui quali continuare a guerreggiare per/contro il mondo ostinatamente, e fuori luogo comune, no global: film dove il baseball o il football servono da esca per lo spettatore della provincia americana, intesa entro e fuori i confini di una nazione, che deve risollevarsi dalla mediocritas di una vita di non-successi, ne abbiamo visti a decine e sempre strutturati attorno alla solidità arborea dei soliti interpreti mascellati, adeguatamente invecchiati, ma ancora incazzati col mondo.
Vengono in mente Kevin Kostner, Don Johnson e, qui presente, Dennis Quaid: di arboreo hanno, forse, il fisico, ma anche la vitalità e la ricchezza d'espressione.
Non lontani parenti dell'imbalsamatissimo Nick Cage, amato o odiato a seconda dei casi (?), raccolgono attorno a sé le conosciutissime frustrazioni di ragazzini sognanti o depressi, con la funzione di doverle ribaltare comunque in concreta soddisfazione professionale o gioia transitoria, trasformando in oro ciò che non lo è.
Neanche loro sono, o erano, oro: il classico incidente fisico o inciampo di vita li ha momentaneamente allontanati dalla febbre della ricerca di un riscatto e ora, poiché un qualche produttore cinematografico lo richiede, devono uscire dalla rispettabilissima nicchia mentale del "ma chi me lo fa fare?" e rimettersi a lanciar palline quando - almeno nella realtà anagrafica - vanno per i cinquanta, mentre il film li pretende al massimo 38enni e li mette in crisi perché non usa il lifting informatico di qualche software antietà.
La vicenda è stata in pratica già raccontata: Quaid torna ad allenare dopo aver abbandonato i campi da gioco e porta ai playoff un mucchio selvaggio, correttamente bicolore, di imberbi players.
Di regola, in questi casi, affondi nella poltrona e giochi con te stesso ad anticipare battute situazioni e musiche - mio dio, le musiche! - ma qui siamo veramente all'osso, roba da elenco pedissequo di topoi classici di uno script buono per i manuali da primo anno di scuola di cinema.
Un esempio: il coach, fino a ieri buono per la C1, deve necessariamente essere richiesto dai grandi club, dopo le vittorie con la sua cricca di boys agguerriti ed essere posto di fronte al dilemma se lasciarli o rinunciare al nuovo contratto/nuova vita, etc.: ve lo immaginate un Cosmi di qualche anno fa rifiutare le offerte del Barcellona o del Manchester? Mai nella vita, ovviamente: ma, si sa, Hollywood, anche quella più semplice e sottotraccia, è comunque BIGGER THAN LIFE.
Regia pre-scolastica, tutta campi lunghi sulla poesia arsa dei campi da baseball, terra e erba a chili visuali se non inquadrature addensate sul broncio quaidiano, agile e scattante quanto un cavallo da corsa ormai pronto per la carriera di stallone.
Ma forse a Hollywood si comincia dalla fine...

Voto: 21/30

Gabriele FRANCIONI
17 - 07 - 02


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