UBRIACO D'AMORE
di Paul Thomas Anderson
con Adam Sandler, Emily Watson


A quanto pare ci voleva il talento visionario di P.T. Anderson  perché la storia di un timidone impacciato e maldestro che trova nell’amore la forza per annientare lo sguardo irrisorio di una società di squali logorroici, potesse sorvolare con disinvoltura il romanzo per donnette e sbaragliare con atteggiamento di sufficienza autoriale il risucchio nel patetismo. Anderson ammicca sornione alla favoletta rosa mantenendosene un palmo sopra, ricama attorno ad una sceneggiatura tendente a zero [non si sa poi perché a Cannes l’abbiano premiata, essendo la cosa più insignificante del film] un turbinio di genialità narrative ed espedienti registici che fanno di questa commediola spicciola un oggetto prezioso, un esempio entusiasmante di cinema alternativo non soltanto alla tradizione del mèlo ma anche allo stile comprovato di un autore che non teme di sporcarsi le mani con esperimenti rischiosi. L’inquietudine apocalittica e l’eleganza scenografica di MAGNOLIA, che avevano meritato a ragione l’acclamazione di pubblico e critica,  vengono scansati qui dalla solare levità di una storiella d’amore a lieto fine che si consuma in scenari umani ordinari e dimessi: due protagonisti che niente hanno di “cool”, goffi e flaccidi, bianchicci e sudati, che grazie alla sfacciata prepotenza della passione riemergono dalla sfiga esistenziale in cui erano invischiati e dissipano l’alienazione di un mondo becero. Una Los Angeles priva di vorticosi bagliori al neon e raccontata solo attraverso gli squarci banalissimi di un fatiscente capannone, uno scaffale di supermarket pieno di budini e qualche appartamentino di periferia; isole Hawai senza scorci paradisiaci e fauna da spiaggia, ma stemperate nella grottesca burloneria di un corteo di deliranti figuri in costume.Difficile farsi trasportare dall’esaltazione epica di fronte ad una storia d’amore così minimale, ma ancora più difficile, grazie a dio, è rintracciare la ipocrisia facilona tipica del genere davanti ad un racconto che procede tanto gradevolmente su quella linea surreale e corrosiva propria del cinema di Anderson e che scava un solco violento e sanguinario nel piattume della Hollywood più mangereccia. Meteore surreali inaspettate ed inspiegate  come l’incidente iniziale, quello strano oggetto di armonium, gli intermezzi di colori acidi sullo schermo.  Programmatici insulti all’ortodossia della ripresa fotografica nello sbilanciamento a tratti provocatorio delle luci e nei difetti di messa a fuoco; un sonoro psichedelico che strania e lascia interdetti. Una messa in scena disarticolata in cui a piani-sequenza con tristi personaggi in solitudine si succedono senza apparente criterio accelerazioni ritmiche ansiogene e folle di buffi tipi umani che si aggrovigliano nell’inquadratura. Il tutto a impreziosire una percezione di cinema che non si ferma ai fatti narrati, anche laddove questi sono presi in prestito dall’archivio di stereotipi della peggior specie, ma va oltre, nella ricerca di un protocollo sgrammaticato e innovativo. Storia di un amore bizzarro e tenero, storia di un autore che irride con sferzante lucidità le scialbe degenerazioni di quella società iper-sviluppata che gli ingrassa il conto in banca.

 
Voto: 28/30
 

Mirco GALIE'
31 - 03 - 03


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