TWENTIETH CENTURY NOSTANGIA
di Hara Masato

Forse ancor più che in occidente l'industrialità delle megalopoli semina decadenza e claustrofobia anche nel mondo orientale. Lo forzo affannoso verso l'efficienza produttiva strema l'anima e genera ossesso. Grossa parte del cinema giapponese, come del resto quello di Hong Kong, si offre come risultante di quella imponente collisione tra occidentalizzazione capitalistica e tradizione culturale, che qui, come da noi, scatena i demoni terribili della alienazione e della paura. Il film di Hara Masato ripropone in maniera forte e incisiva un tema centrale in tutta l'arte del XX secolo: l'uomo moderno imprigionato nelle maglie strette del cemento urbano smarrisce il senso della sua identità, l'orientamento negli spazi indefiniti del dialogo tra le cose, la sua collocazione all'interno di un ordine immanente ed intuitivo. L'architettura caotica e rigidamente prefabbricata dell'organizzazione urbana si impone come necessità e responsabilità, ma al tempo stesso, anzichè offrire soluzioni di miglioramento alla condizione del sopravvivere, degenera nelle forme di un soffocante vuoto esistenziale dove tutto è incerto e improbabile tranne l'urgenza di costruire per consumare. La potenza della tecnologia mediatica che satura l'intelaiatura dei rapporti all'interno dell'aggregato urbano e li espande ad una dimensione planetaria, piuttosto che favorire la comunicazione sociale, la deprime minimalizzandola a tristi contatti che servono la meccanica di un sistema divenuto necessario. Hara Masato riflette sul tema raccontandoci una gradevole storia che si sviluppa attraverso la struttura narrativa della finzione nella finzione: la giovane protagonista Anzu (Hirosue Ryoko) affascinata dal racconto del compagno di liceo Toru che dice di ospitare nel suo corpo un'alieno, lavora con lui su un film di domestica fattura dove fingono di aver prestato i propri corpi a due alieni che esplorano la terra per spiegare le dinamiche del suo processo di autodistruzione. Inaspettatamente Toru parte per l'Australia, evocando il simbolo metafilmico di una improbabile fuga dall'alienazione verso una naturalità primigenia perduta. Anzu inizia le riprese del film senza il compagno. Se finzione e meta-finzione si confondono nel racconto in modo poco chiaro, compare invece nitidamente nei pochi squarci di poesia visiva che il regista si concede la inquietante complessità della socialità urbana: sciami di microorganismi metallici vagano in un labirinto buio di costruzioni e bagliori elettrici in sequenze di fotogrammi sconnessi e inquadrature a tratti sfocate, mente la voce fuori campo azzarda interpretazioni che oscillano tra etologia, psicologia e filosofia: "I terrestri, dimentichi della loro foresta, ne hanno costruita una artificiale nella pianura" - "per questo amano la velocità: per riavere quell'impressione di correre liberi nella foresta, nella pianura bisogna andare molto veloci". La costruzione metropolitana si rivela goffo tentativo di appagare un sentimento di nostalgia primitiva, un progetto generato nei recessi di una deformata memoria, e l'anatomia urbana alternativamente, o contemporaneamente, diventa per il narratore inconscia riproduzione della complessità del sistema cerebrale: le comunicazioni come fibre neuronali ed i rapporti come contatti sinaptici.
Scavalcando però la visione, forse ridotta a retorica, della irreparabile frattura tra l'uomo industriale e quello naturale, Hara Masato tenta un passo più audace quando l'obiettivo della videocamera di Anzu si solleva tarkovsckianamente attraverso i rami frondosi in un giardino di città e la voce fuori campo afferma: "non è necessario andare via per comunicare con le stelle, gli alberi lo fanno bene anche da qui". Il movimento dell'inquadratura ricorda Tarkovskij, cosiccome il senso di appartenenza essenziale dell'uomo ad una natura madre, ma a differenza del cineasta russo, Hara Masato affranca il progresso da una diagnosi di patologia e malignità e prospetta la possibilità di una convivenza tra tecnologico ed umano. Nel programma di rigenerazione del rapporto tra l'uomo e il suo mondo al cinema è attribuito un potere forte: la macchina da presa diviene uno strumento potente attraverso il quale l'osservatore può riconciliarsi con la realtà che lo circonda scoprendone e documentandone la poesia senza filtri ideologici ma con la coscienza libera dell'immanente. Per tutta la durata del film Anzu vaga con la videocamera in mano e il montaggio delle scene alterna inquadrature in oggettivo e in soggettivo con un ritmo che va evidentemente oltre le necessità della narrazione, soffermandosi nella ripresa di fiori e forme di vita attrarso l'obiettivo del regista o quello del personaggio indifferentemente; la madre di Toru si affretta a prende la videocamera di Anzu ed inquadrare la ragazza prima di comunicarle che Toru è tornato a casa: l'atto è quello di sublimare con l'arte, il cinema particolarmente, frammenti quotidiana bellezza. lo stesso regista si è presentato alla proiezione del film in sala sorridendo e maneggiando una piccola videocamera con la quale riprendeva il pubblico e se stesso, fin troppo evidente esempio di coerenza tra vita ed arte, ed ha aperto la sua presentazione dicendo: - si pensa che i media e la tecnologia habbiano ucciso il cinema, ma io credo che non sia vero -. NIJUSEIKI NOSTALGIA appare lontano dalla esasperazione estetica del migliore cinema orientale, l'atmosfera sembra per lo più pregna di fanciullesca ingenuità soprattutto in quelle scene "musical" in cui Anzu e Toru improvvisano duetti nelle strade della città, ma il film si fa comunque ammirare per la sua tenerezza e la profondità della riflessione. a Pesaro si parla di Cinema Nuovo, e forse nella originalità e nella profondità del messaggio di Anzu il cinema si apre al preludio di una nuova epoca dove l'uomo riguadagnerà la consapevolezza di se stesso e del mondo di cui è parte senza dover rinnegare ciò che è riuscito a conquistare nei secoli. Il film si chiude con l'inciso: " Chunse e Pouse ringraziano il XX secolo".

Voto: 27/30

Mirco GALIE'
04 - 01 - 02


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