Primo equivoco da chiarire: The Master non è un film su
Scientology, né su alcuna altra setta religiosa. È invece, piuttosto
trasparentemente, un film sulla psicanalisi. Potremmo dire, addirittura, che
sia la controparte (pseudo)freudiana all'intrapresa (pseudo)marxiana che fu
Il petroliere. Dietro la storia di questo reduce di guerra sbandato che si
fa irretire da un omologo di L. Ron Hubbard e dalla sua setta proponentesi
nientemeno che il controllo sulle proprie emozioni, è pressoché tassativo
riconoscere, in ogni dettaglio, un trattamento psicanalitico in piena
regola, alla fine del quale il soggetto conquista la propria indipendenza
rispetto all'analista, e soprattutto impara a maneggiare il terribile dato
di fatto che il proprio desiderio, per quanto abissalmente animalesco possa
essere (si veda la connotazione ipersessuata di cui è oggetto il
protagonista), ha in realtà l'inconsistenza di un'ombra. Nel caso del
protagonista: il desiderio per l'altro sesso, che orienta ogni fibra della
sua vita, è in realtà il desiderio di una donna di sabbia.
Il che ci conduce al secondo equivoco da chiarire: P. T. Anderson,
fondamentalmente, non è un regista. Non è capace, in altre parole, di
entrare nel flusso dell'azione e padroneggiarlo facendosene a propria volta
padroneggiare. No: lui crede che a quell'ombra (quel fantoccio, quella
figura di sabbia) che è il proprio desiderio si debba dare una
rappresentazione davanti a sé, una consistenza monumentale. Ed eccolo,
allora, a curare oltre il dovuto le proprie inquadrature, ad escogitare per
ognuna di loro una maestosità figurativa che, semplicemente, contraddice
l'assunto del racconto, perché è la dimostrazione flagrante che, a
differenza del suo protagonista, Anderson non vuole abbandonare l'illusione
che il fantasma che si tratta di rappresentare (o rappresentarsi) abbia una
sua granitica consistenza. Vuole essere un Master, non riesce ad accettarne
la futilità – sopra la quale, anzi, si accontenta di piazzare una pezza
tramite la magniloquenza del 70 mm. In termini ulteriormente diversi:
Anderson non riesce a trovare la misura per cui il proprio
fantasma/desiderio non è né opaco né trasparente, ma ambo le cose insieme
(l'esercizio che il santone-alla-Hubbard sottopone al proprio adepto è
precisamente quello di oscillare ossessivamente tra una parete opaca e un
vetro trasparente).
Grandissimo lavoro con gli attori, certo (e Philip Seymour Hoffmann più di
Joaquin Phoenix), ma anche qui, non si tratta che del tenero (per non dire
patetico) attaccamento all'illusione che un Soggetto Individuale esista – la
quale è precisamente l'illusione che la psicanalisi, se vuole davvero andare
fino al fondo del proprio percorso, deve abbandonare. Anche perché, alla
fine del suo percorso, la psicanalisi è obbligata ad incontrare la
religione: cfr. ora e sempre Jacques Lacan e la sua “chose freudienne” così
vicina alla The Cause del santone di questo film. E Anderson questo lo
indovina, nel momento stesso in cui la religione diventa nel suo film la
maschera evidente della psicanalisi. Il problema, al di là della perizia con
cui Anderson mette in piedi la sua grandeur di cartapesta e dei sottotesti
più o meno acuti con cui infarcisce la sua esile parabola (il ruolo centrale
del Femminile in una dinamica a due che parrebbe solo maschile) è che non
riesce a credere che il proprio desiderio sia dappertutto anziché di fronte
ai suoi come ai nostri occhi, su un piedistallo.
10:09:2012
prima pubblicazione festival di venezia 2012 |