THE COMPANY

di Robert Altman

Con: Neve Campbell, James Franco

di Marco GROSOLI

Conviene dirlo subito. Siamo in un pianeta diverso da quello di Save the last dance et similia. Questo è un film sperimentale, fino all’anacronismo forse, perso com’è in un burrascoso vortice di decostruzione formale e narrativa molto simile a quelli che percorrevano spesso i film degli anni 70, certo anche grazie a Altman che è stato uno dei primi (e tra i più radicali) a innescarli. E non si è mai fermato, bisogna dirlo. Certo, negli ultimi anni ha approfittato di punti di partenza un po’ facili; il giallo, per esempio, cuore pulsante di La fortuna di Cookie (che comunque per tutto il resto guarda a Billy Wilder) o dell’ottimo Gosford Park, è quanto di più agevole possa prestarsi all’esplosione strutturale proprio perché è una delle forme più chiuse che la narrazione cinematografica conosca.
Questa volta il rischio è maggiore. Abbiamo una forma semplice, il balletto. E abbiamo un ingente massa contestuale di vite, ambizioni, sentimenti, personaggi e circostanze che come sempre in Altman si ramificano in modo incontrollabile e lussureggiante. Il problema sarà dunque: che rapporto c’è tra loro? È la regia a rispondere, una regia onnipresente, influente e pervasiva tanto quanto è disposta ad eclissarsi e fingere come solo i grandi sanno fare di starsene a lato (proprio come il Mr. A di Malcolm McDowell, capo della compagnia tirannico e dolce, puro coordinatore, a un tempo autoritario e dalle maglie larghe). I balletti sono ripresi alternando rigidamente totali del palco e dettagli, secondo un’alternanza indipendente dai movimenti effettivi del balletto. Questo consente di accantonare il balletto come forma e di accedere al balletto come movimento, puro e semplice. E infatti Mr. A afferma deleuzianamente che “non basta pensare il movimento per diventare il movimento”, alla forma si preferisce il frammento, la cui connaturata incompletezza testimonia precisamente l’appartenenza a una totalità indefinibile che è appunto il movimento. Per questo tutto il resto del film (l’ascesa professionale e sentimentale della ballerina Neve Campbell, i numerosi personaggi secondari, la preparazione collettiva dei balletti, eccetera) è costituito da frammenti, da morsi disordinati di vita che da un pezzo Altman non riusciva a mantenere lungo il corso del film così ammirevolmente indeterminati. È il movimento a regnare, perché i mille eterogenei miniblocchi narrativi si limitano ad attraversarsi reciprocamente come fa sul palco il ragazzo della protagonista alla fine del film, a venire a contatto senza svilupparsi in qualche determinazione. Nemmeno il balletto può essere assunto a forma totalizzante, perché (come fa la scena dell’ultima coreografia di The Company) letteralmente si mangia i ballerini, vive solo se respira e assorbe qualcosa di esterno, eterogeneo (perciò, la protagonista si paga la scuola di danza facendo la cameriera), è fondato stabilmente sul terreno indefinibile e scivoloso dei rapporti quotidiani e interpersonali a carattere lavorativo-economico, dunque ibrido, impuro e compromesso in partenza.
Ma non è solo questione di altmanianissimi short cuts. Lo scatto geniale sta nell’annullare la forma con la forma stessa, nel far deflagrare il visibile mediante il visibile stesso. Se prima dei titoli di testa si inizia con un curioso invito a spegnere, prima dei cellulari, gli apparecchi di riproduzione, è proprio perché Altman gioca contro la registrazione automatica del visibile operata dalla macchina da presa. Ci sono molte riproduzioni visibili della forma in questo film: foto, vhs di recite scolastiche, illustrazioni, ripetizioni di passi di danza da parte di soggetti diversi e quant’altro. Ma esse stesse, proprio perché livellate da quella appartata e discreta fenomenologia della superficie che è la regia altmaniana, sono solo gocce nel mare, perdono la propria predominanza di valore rispetto alla forma riprodotta, libera così di sciogliersi in movimento una volta messa a contatto con tutto il resto. Quanti personaggi poi che irrompono in scena aprendo la porta specchio (il visibile nella sua dimensione necessariamente superficiale che si infrange)! Ancora, la forma (il visibile) che lascia spazio al movimento.
Ma a che giova tutto ciò? Se ci si sa lasciare andare, è una gioia per gli occhi (finalmente liberi di scorazzare su una mappatura del visibile sempre ribollente e cangiante) molto rara di questi tempi, come gli splendidi (almeno per noi profani) balletti messi in scena.
 

Voto: 28/30

21.04.2004

 


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