IL TEMPO DEI LUPI

di Michael Haneke
Con: Patrice Chéreau, Isabelle Huppert

di Riccardo FASSONE


Giunto al suo ottavo lungometraggio, l’austriaco Haneke aggiunge un tassello alla propria personale rappresentazione di un’epica della disperazione, che vede piccolissimi uomini comuni confrontarsi con tragedie immanenti ed implacabili, in grado di cancellare dignità, umanità ed amore. Prendendo le mosse da Funny Games, esordio del regista austriaco, Il Tempo Dei Lupi si apre con un’invasione violenta dell’intimità famigliare, paradigma di quella violazione della serenità che sembra essere la cifra stilistica di Haneke, che farà da prologo ad un viaggio doloroso e terribile, attraversato dall’incubo della carestia e dell’abbandono. La storia, in breve, è quella di una famiglia francese che, dopo essere stata allontanata con violenza dalla propria abitazione, si trova a dover affrontare una catastrofe naturale (della quale, per altro, non conosciamo la natura né le cause) e a lottare per la sopravvivenza in una società che ha dovuto riscoprire gli aspetti deteriori dell’istinto di conservazione. E’ chiaro da subito che la messa in scena quasi teorizzante e grottescamente classica vista ne La Pianista è un ricordo; la fotografia è livida, il digitale di Haneke è sgranato e crudo e pochissimo è concesso all’occhio cinefilo, che deve accontentarsi di un paio di scene in notturna dalla geometria interessante e ad una manciata di piani sequenza di gusto pittorico. E’ altrettanto chiaro, e si potrebbe, con un po’ di malizia, affermare che era difficile aspettarsi altro, che il pessimismo inumano di Haneke non ha mutato colore né forma; la crudeltà con la quale il regista tratta i propri personaggi è quella cinica e priva di ironia alla quale l’austriaco ci ha abituati, quella che non offre scampo né redenzione al gruppo di profughi, costretti a subire le angherie di un destino che quasi tradisce il sadismo del regista/demiurgo che lo forgia. A ben guardare, infatti, il punto debole della poetica di Haneke si ripresenta anche ne Il Tempo Dei Lupi, un film programmaticamente privo di ironia, che, nel tentativo di ritrarre un’umanità ridotta all’istinto primordiale, confeziona un quadro spesso incoerente, nel quale i rapporti tra i personaggi seguono linee imprevedibili e gli intrecci si scontrano con forzature incomprensibili. La predilezione (feticismo?) per lo strazio dimostrata da Haneke, tradotta in piani sequenza infiniti analoghi a quello che costituisce la chiave di volta di Funny Games (opera che, inevitabilmente, visto il carattere metalinguistico, si pone come pietra di paragone dei lavori successivi del regista), è qui portata alle estreme conseguenze e nei momenti di maggiore sintesi di poetica e stile è facile riconoscere la mano (un po’ pesante a dire la verità) di un regista a suo modo estremo, tanto affascinato dalla psicologia dei propri personaggi da arrivare a scrutarne l’abissale dolore con l’occhio del voyeur. Ciò che depone a favore de Il Tempo Dei Lupi è l’inquietante e, questa sì, credibile evoluzione del personaggio interpretato dalla bravissima Isabelle Huppert, che da madre si trasforma in lupa, pronta a mostrare unghie e denti per proteggere i propri cuccioli ed in grado di adattarsi con la rapidità della belva alle incomprensibili prove di coraggio alle quali una situazione disperata la costringe. Un’esperienza cinematografica interessante, non fosse altro per lo stile autarchico e scontroso di Haneke, un regista che, nella piena coscienza dei limiti della propria messa in scena, persegue l’obbiettivo di mostrarci la violenza ed il sopruso senza le giustificazioni imbarazzate a cui il cinema “per bene” ci ha abituati.

 

 ::: IL FILM A CANNES 2003 ::::
 

Voto: 24/30

23.06.2004

 


::: altre recensioni :::