La sposa turca

di Fatih Akin
Con: Birol Űnel, Sibel Kekilli

di Luciana APICELLA

 

Cahit è un quarantenne turco naturalizzato tedesco, depresso e alcolizzato, e alla vita ha deciso di non chiedere più nulla se non abbondanti scorte di Beck’s in lattina e qualche riga di coca. In una delle mille notti uguali, consumate nell’ennesimo squallido bar da cui è stato cacciato per un insopprimibile istinto alla rissa, va a schiantarsi con l’auto contro ad un muro, un gesto che assomiglia ad un tentativo di suicidio e forse non lo è dal momento che la morte gli è indifferente almeno quanto la vita. Nell’ospedale psichiatrico dove si ritrova suo malgrado a render conto del suo gesto incontra Sibel. Anche lei è turca, anche lei ha tentato il suicidio tagliandosi le vene dei polsi. Stretta nella morsa dell’opprimente tutela del padre e del fratello la sola via di fuga della ragazza è sposarsi per sottrarsi al giogo della tradizione che la vorrebbe figlia e moglie sottomessa: Sibel è troppo bella ed ha troppa fame di vita e di sesso per fare la brava ragazza musulmana. Così come un ciclone chiede a Cahit di sposarla. Lui rifiuta, lei frantuma la bottiglia di birra che stanno bevendo assieme e si taglia di nuovo le vene. Di fronte alla disperata determinazione di Sibel e poiché nulla ha da perdere l’uomo cede, accetta l’assurda richiesta e le condizioni dettate dalla ragazza: andranno a vivere assieme ed ognuno di essi continuerà la sua vita e sarà libero di vivere le proprie relazioni sessuali. Ma a poco a poco la convivenza si trasforma in un legame che cresce senza che neppure essi ne siano consapevoli, e proprio nel momento in cui ogni resistenza sta per essere abbandonata una banale lite tra l’uomo e uno dei tanti amanti occasionali di Sibel si trasforma in tragedia. Cahit finisce in carcere con l’accusa di omicidio, Sibel disperata e decisa a non tornare più indietro si trasferisce ad Istanbul dalla cugina. Accetta un umile lavoro da cameriera d’albergo, di notte si perde per le vie di una città che nulla conserva del fascino iconografico della porta d’oriente, che mostra il volto della modernità nel suo ingorgo di macchine e locali ma che fatica a concedere ad una donna libertà di parola e di atteggiamento. La ragazza vuole solo conservare il suo amore puro. Scrive struggenti lettere a colui che solo ora sente essere diventato suo marito, si ingolfa in abiti deformi e taglia i capelli per camuffare quell’avvenenza che nei locali di Amburgo le offriva con facilità un amante diverso per ogni notte, viene stuprata e picchiata a sangue da tre balordi volontariamente provocati e lasciata rantolante in mezzo ad una strada. Cahit esce di prigione e parte per Istanbul deciso a trovarla, ma dopo quella notte in cui ha rischiato la vita Sibel si è piegata. Ha un compagno, una bambina, ma quell’amore inspiegabile e immenso non si è mai spento. I due si ritrovano, nudi, in una stanza d’albergo dove finalmente consumano il loro matrimonio ma la vita ha deciso per loro che non c’è spazio per un futuro assieme.
Premiato con l’Orso d’oro al Festival di Berlino il film di Akin potrebbe banalmente essere interpretato come un inno all’amore e alla sua potenza rigeneratrice: è l’amore che offre a entrambi i protagonisti la via di fuga da un insopprimibile istinto autodistruttivo, che dà una prospettiva un senso o una qualsivoglia direzione. Ma per fortuna è davvero poca la melassa che ci viene propinata: dallo schermo ci investono con violenza immagini livide di luci al neon, una bella colonna sonora che mescola sonorità elettroniche e cupe a siparietti musicali turchi, testi che celebrano la bellezza di occhi neri e poi gridano alla follia della passione amorosa che “vede un faro ardere in cima alla montagna”, un sesso che è un prendersi cieco e violento per non perdersi nella propria inconsistenza. E il recupero di sé attraverso il sentimento amoroso diventa anche scontro e poi recupero della propria identità etnica, perché non si possono rinnegare in eterno le proprie origini, perché i genitori si possono e si devono uccidere ma il loro sangue è quello delle nostre vene, quello che con evidente simbolismo si vuole rigettare col taglio di una lametta. E’ evidente che la vicenda autobiografica di Akin, turco di origini ma nato e cresciuto nella stessa Amburgo in cui il film è ambientato, ha giocato un ruolo di primo piano nella costruzione della sceneggiatura. Che regge, soprattutto nella prima parte, più grottesca e quasi punk, nel cromatismo dagli stridenti contrasti della fotografia. La seconda parte, più riflessiva e intimista, pecca forse di un eccesso di lentezza e rovello.
 

Voto: 26/30

08:11:2004


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