SHREK
di Andrew Adamson e Vicky Jenson



La guerra a colpi d'incassi che la Dreamworks ha ingaggiato contro la storica Disney dal menagement di mercato si internalizza nel tessuto del testo filmico. Tutta la sceneggiatura di SHREK, infatti, pare impostata sull'intenzione di decostruire gli stilemi della favola proponendo come eroe un disgustoso orco verdastro, sgraziato e puzzolente e come principessa una soave fanciulla esperta in arti marziali, che col calar del sole si deforma e si ingrossa. La scelta dei protagonisti potrebbe sembrare semplicemente ispirata a un più moderno schema di sperimentazioni narratologiche che conta sul potere di seduzione di un eroe grottesco, un antieroe, in alternativa al "kalòs kai agathòs" delle formule tradizionali: una soluzione narrativa questa, che è arrivata anche ad Hollywood sebbene con ritardo rispetto al corso della letteratura d'occidente. In realtà, invece, il lavoro è assai più rigoroso e il ribaltamento della fiaba si fa programma esplicito divenendo l'asse portante su cui ruota l'intera storia e sviluppandosi su diversi piani. Il primo è quello di cui si è già detto, ovvero la scelta di eleggere come protagonista una figura pescata nel repertorio dei mostri oscuri della tradizione favolistica e mitologica, che nell'immaginario della cultura popolare è identificato nello squartatore dei corpi sacrificali e nel mondo favolistico riveste solitamente il ruolo di bestia da combattere. Il secondo piano è quello su cui si innestano i motori 'morali' dell'azione: l'orco si imbarca nella eroica impresa non per un ideale d'amore o un epico senso del dovere ma per il tornaconto egoistico di recuperare all'intimità la sua fetida palude, dove vive tra il letame e la solitudine; la principessa cerca il vero amore solo per rompere l'incantesimo e riappropriarsi in maniera definitiva della bellezza, una qualità che nella fiaba tradizionale è condizione indispensabilmente presente ma vissuta con implicita negazione e mai intenzionalmente perseguita. Il terzo piano riguarda il comportamento dei personaggi delle fiabe disneyane, visibilmente orientato alla inversione del loro valore tradizionale: Geppetto che vende Pinocchio, il cadavere di Biancaneve che viene "dissacrato" dalla  cinica esortazione dell'orco ("via da qui la ragazza stecchita"), Robin Hood e la sua banda messi al tappeto dalla bella, ecc... Del resto il loro stesso inserimento come personaggi all'interno dell'economia narrativa non ha altra funzione se non quella di rimandare ad una riciclaggio in chiave esplicitamente dissacratoria della fiaba attraverso la decontestualizzazione del loro carattere iconico. Il quarto piano, infine,  è quello più epidermico, più ostentato, quello che attraverso articolazioni didascaliche impostate sulla reiterazione continua del "non è così che dovrebbe essere", gioca a precludere ogni altra lettura diversa da quella del ribaltamento del copione canonico e rende la chiave interpretativa assolutamente esplicita (anche troppo, ma gli eccessi non sono una novità nella maniera di certo cinema rivolto a cervelli che funzionano in codice binario a sole due opzioni: 0 e 1, privi della capacità di cogliere sfumature nelle pieghe del testo).
Un aspetto che si fa apprezzare in SHREK è la presenza di spunti volti alla rivisitazione ironica del mondo dello spettacolo e della comunicazione televisiva: lo specchio magico che propone le sue opzioni col tono di una televendita,  o quella specie di gobbo al contrario che istruisce gli spettatori della scena sui gesti da eseguire ("applause, laugh, ecc...). In realtà però, queste parentesi umoristiche più che una parodia in senso critico contro la pecoraggine del pubblico passivo risuonano come espedienti senza alcuna pretesa riflessiva. Siamo lontani dalla satira corrosiva de "I Simpsons" e molto più prossimi, invece, alla semplicità giocherellona di un cabaret per bambini.
Nel tessuto del racconto trovano anche spazio, sapientemente inserite, citazioni cinematografiche che vanno da MATRIX, nella performance atletica della principessa tra gli scagnozzi di Robin Hood, a LA STORIA INFINITA, nell'immagine dell'asino che solca i cieli in sella ad un drago dal muso canino.
Forse la scelta narrativa più audace è quella di risolvere la vicenda nella
costituzione di una coppia "orrenda" ("e vissero felici ed orrendi"). La trasforazione in orco della principessa è una svolta spiazzante rispetto all'aspettativa di una soluzione che, come in LA BELLA E LA BESTIA o ne IL GOBBO DI NOTRE DAME, riscatta la deformità fisica senza contaddire alla necessità di perfezione estetica nell'ideale dell'eros: se c'è l'amore ci deve essere comunque un bello.
Tuttavia, SHREK non è soltanto innovazione ed audacia narrativa. Sebbene grossa parte della critica l'abbia osannato per le sue doti di originalità tanto da inserirlo in concorso a Cannes, non si discosta poi molto dallo stile cinematografco hollywoodiano. A parte il fatto che la gradevolezza della storia si regge sempre e comunque sulla simpatia dei persoaggi e conta sulla solita faciloneria di un umorismo folkloristico ridondante, assolutamente classico nell'impostazione stilizzata a climax, non mancano modelli di caratterizzazioni topiche come il compagno macchietta (ciuchino), il salvatore che si innamora della salvata durante il viaggio verso il committente dell'impresa, il gioco di equivoci che complica la vicenda e rimanda la soluzione alla svolta finale, ecc... in altre parole la produzione hollywoodiana è rimasta sostanzialmente coerente alla sua poetica-non-poetica, limitandosi all'intuizione, commercialmente riuscita, di sfruttare la carenza di idee come ispirazione per tentare una nuova soluzione di mercato: dal momento che non hanno fantasia per inventare nuove storie sono ricorsi alla ridicolizzazione gratuita delle vecchie storie, quelle tradizionali, quelle che, tra l'altro, sono tra le poche cose buone che la fantasia americana abbia generato. Ma il senso del cinema come "racconta storie per pubblico da intrattenere" rimane inaltrato malgrado la scelta  di inveritre le articolazioni narrative; cambiando l'ordine degli addendi il risultato non cambia: siamo sempre davanti ad un dramma che corre superficialmente su un solo binario, dai cui elementi estetici non fuoriesce altro che la superficialità di un racconto orientato verso la sorpresa del finale, drasticamente alieno ad ogni scavo viscerale e poetico. Il supermarket hollywoodiano, nella fattispecie della
Dreamworks, colosso del momento,  ha perso un'altra occasione per rivedere la sua poetica e concedersi alle potenzialità illimitate che il mezzo cinematografico offre alla comunicazione con l'esperienza interiore.
Potenzialità tutt'altro che precluse al campo in crescente sviluppo dell'animazione. Citare a questo punto il Linklater di WAKING LIFE, che coniuga in modo magistrale la digitalizzazione dell'immagine con la poetica del road-movie filosofico, può essere una forzatura, dato che è troppo audace il confronto tra un genio della scuola wendersiana e imbonitori da fiera della scuola Spilbelberghiana. Ma sia lecito almeno citare il Tim Burton di NIGHTMARE BEFORE CHRISTMAS  che con la sua capacità di dare un irresistibile senso di tenerezza attraverso una estetica cupa e una drammaticità non urlata ci insegna come il prodigio della tecnologia possa essere valorizzato da una ricerca estetica che lavori sull'immagine in senso lirico e abbia il coraggio di mettere in gioco quelle che sono le sicurezze limitanti della grammatica cinematografica tradizionale.

Voto: 25/30

Mirco GALIE'
14 - 09 - 01


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