shame
di Steve McQueen
con Michael Fassbender, Carey Mulligan
e con James Badge, Nicole Beharie

di Gabriele FRANCIONI

 

24/30

 

prima pubblicazione festival di venezia 09.09.2011

 

A British-American psycho in New York, New York

 

Steve Mc Queen è noto per l’attitudine a scansarsi dal centro del discorso, se discorso c’è (se linguaggio c’è)  e a curare installazioni visive dedite alla sottrazione, all’“uscita da”, al porsi altrove. Presente alla Biennale Arte del 2009, ci aveva mostrato un video – non a caso intitolato BACKSTAGE - concepito a mo’ di camera obscura rattrappita, entro la quale implodevano gli spazi dei Giardini, i padiglioni, la stessa qualità diurna o estiva della rassegna veneziana. Un occhio assente, che sembrava rimandare a una quantità “X” indefinita di altri occhi, registrava l’accumularsi stocastico di microaccadimenti notturni o periferici, come il vagabondare di cani sciolti o il lavorio verticale delle gocce di pioggia. Impertinentemente, l’artista mostrava qualcosa che, a febbraio o marzo, ancora di fatto non esiste.

It’s not there. SHAME è esattamente il backstage e il fuori di qualcosa. Molti hanno improvvidamente scambiato il film per un atto di “presenza ossessiva del corpo-sesso di Brandon (più che un personaggio, una marca, un brand che si aggira tra mille brand arredodecorativi all’interno dell’ennesima teoria newyorchese di loft senz’anima), mentre è un lungo video stilosamente superfluo sul pensiero del fuori e sulla messa in rappresentazione dell’assenza. Scomodando Foucault, facciamo nostra l’idea del “clone” concepita dal pensatore francese: immaginando la funzione del nostro sentire il mondo incarnata vicariamente da/in un “compagno” che ci rappresenti e sostituisca “là fuori” (qui è Brandon per SMQueen e per tutti gli spettatori maschi più naive), diremo che, “ una volta che l’interiorità è attratta fuori da sé trova rifugio in una sorta di clone non sovrapponibile che non può dire “io” perché, appunto, è fuori da “io” ma ne è legato in un rapporto che potremmo definire d’anticipo; l’io scrive quel che questo contenitore esterno che ha rifugiato l’interiorità attratta vede. Nel pensiero del fuori il soggetto è dissolto, non ci sono più né bene e né male (…). Il pensiero del fuori, e quindi la sua parola, non ha bisogno d’immagini o verità, è il linguaggio stesso che parla e il linguaggio non è di nessuno (…)”. Ne consegue che il soggetto, appunto, è dissolto e il clone non può parlare. Siamo nel vuoto e nel silenzioso ronzio del linguaggio lasciato solo.

SHAME non assume, come REQUIEM FOR A DREAM, la specifica forma di addiction per darle corpo e voce, rinunciando al “clone”, ma si limita a descriverla quasi venisse osservata a mo’ d’installazione di arti visive, dopo averla illuminata come un qualunque film porno entro cui transitano le figure nude di Vanessa Beecroft.

L’arte di Steve Mc Queen consiste, d’altronde, nel porre in rappresentazione assenze e nel mettere in atto sottrazioni alternativamente definite come “video” o “film”. HUNGER, ad esempio, prevedeva la scarnificazione del corpo attoriale del feticcio-Michael Fassbender, messa al servizio di un atto politico utilizzato come viatico per ottenere massima esposizione mediatica. Il Turner Prize del 1999 aveva premiato, anni prima, l’ennesimo Y.B.A. della generazione di Emin e Hirst, salvo che qui si era fuori dall’ambito oggettuale e performativo e prossimi a manipolazioni o citazioni dell’immaginario filmico di ogni epoca (Deadpan, 1997, da Buster Keaton: un edificio crolla attorno allo stesso SMQ (ancora una volta la rappresentazione di un minus) lasciandolo intatto.

Nel processo di avvicinamento alla gloria, SMQ ha deliberatamente abusato di Bobby Sands e del genio performativo di Fassbender in HUNGER, per poi dedicarsi al progetto del film presentato alla Mostra.

Nonostante l’artista visivo rifiuti il parallelo suggerito da molti, è chiaro che ci troviamo di fronte a una replica di AMERICAN PSYCHO a 20 anni dal libro di Ellis e a 11 dal film della Harron, ma priva di quella profondità garantita dalla prospettiva temporale e con l’inutile entrata in scena della sorella del protagonista. Essa dovrebbe essere, tutto in una volta, doppio e opposto del novello Bateman, messa lì per tentare di scardinare la storia e svolgere un ruolo purificatore, in realtà mero agente esterno superfluo e ininfluente, orpello fastidioso.

New York - mattatrice del film - torna stilizzata com’era già in temperie busheana (padre,1991, e figlio,2000), guardata da una m.d.p. presa di peso dal set di un film hardcore ad alto costo, che si fissa ossessivamente sul contrasto tra i bianchi allucinati degli interni e la corrosione gialla del corpo di Fassbender o i cromatismi graffiati e scuri delle scene in metropolitana. Ennesima pellicola a trascinamento unico da parte del corpo attoriale del protagonista (il concetto di “attore-locomotiva”, vedasi HAIL, SAL e WILDE SALOME, N.d.R.) ed ennesimo fallimento di un film realizzato con la m.d.p. “addossata” al protagonista, messo lì come un’installazione o una scultura di sesso.

Lo scheletro-struttura - l'Irlanda delle origini, il New Jersey della ricollocazione sociale, le dinamiche familiari con relative derive relazionali tra fratelli- è tranquillamente eluso e lasciato fuori campo. Ma, si sa, SMQ non è un regista, e sembra volerci dire -come Sissy/Carey Mulligan nel film- "we're not bad people, we just come from a bad place".

 

Sinossi:

Brandon, sex-addict terminale, insegue una preda nella metropolitana newyorchese e manca il bersaglio: la ritroverà alla fine del film, a parti invertite. Nel tempo che trascorre tra i due episodi,il protagonista  si masturba compulsivamente un po’ ovunque, oppure pompa dentro i computer (di casa, dell’ufficio) contenuti tipo “anals 1, anals 2” o “cream pie”, ricordandosi anche di fottersi una escort  dopo averla spalancata contro vetrate e presa da dietro. Michael Fassbender, feticcio del regista di colore dai tempi di HUNGER, fa su e giù: sale i grattacieli per fingere di lavorare in un superufficio e mimare un abbozzo di vita privata nel loft in cui vive, mentre ne conosce solo il bagno, il corridoio e il tavolino su cui piazza il laptop. Poi scende in basso, si degrada un po’ per strada o nelle subways, ma il disagio non se ne va insieme al seme. (Intanto, però, il registartista ha piazzato questa intelligente contrapposizione socioantropologica tra alto e basso). Ex abrupto, piomba in casa una mariamaddalena travestita da sorella - quindi non fottibile (Brandon è d’origine irlandese, dopotutto) - che non solo gli ammorba la vita con la sua presenza, ma gli costruisce attorno i prodromi di un senso di colpa appiccicaticcio e, massimo della costrizione, lo punisce con una serata al pub dove lei canta. Qui Sissy  abbozza un’imitazione di Isabella Rossellini in BLUE VELVET, ma riesce solamente a pigolare NEW YORK NEW YORK. Così stratifica abissi di senso (“if you make it there you can make it anywhere”) e fa piangere Brandon. Tornata in appartamento, Sissy lo copia, cioè scopa, diventando il suo Doppio per costringerlo a guardarsi allo specchio e intuire il Vuoto in cui è sprofondato. Quello, però, continua a menarselo. Improvvisamente - i meandri della psiche…- Fassbender sembra redimersi, frequentando una bella ma seria collega di colore. Al ristorante i due s’imbattono in un cameriere preso di peso da AMERICAN PSYCHO (stessa pedante lista dei vini come indicatore di classe sociale, ma pure di vacuità). Brandon quella sera non va a segno e, convintosi di essersi innamorato della colored, le sgancia un secondo invito pomeridiano: incredibilmente fa cilecca. Poiché ha pagato la stanza, però,  ammortizza la spesa chiamando una escort, grazie alla quale vede risorgere le prospettive della giornata e altro. La sorella, intanto, non schioda. Storie tese tra fratelli,  al punto da indurre Brandon a svagarsi saggiando il potere lenitivo di una walk on the wild side - bacio omo fuori da locale gay contro rete metallica - e spingere Sissy al più telefonato dei tentativi di suicidio. Cristo in gonnella si è messo in croce: è ora di darsi una regolata, sicché Brandon, schiumata rabbia e trattenuto il poco seme rimastogli, riesce a calare qualche lacrima e a infilarsi per l’ennesima volta nella fallica metropolitana.

 

P.s. Abbiamo la sensazione di trovarci di fronte a un film di James Toback tirato a lucido e senza ironia. Per film che indagano addiction sessuali o narcotiche, si vedano piuttosto MIDNIGHT COWBOY e DRUGSTORE COWBOY, oltre al citato REQUIEM FOR A DREAM.

Regia Steve McQueen

Gran Bretagna 2011, 99'
BIM

DUI: 13/01/2012

Drammatico