Come ci si aspetta dal compito di un alunno diligente, in questo dramma
familiare semi autobiografico che rappresenta il suo debutto alla regia,
Dannis Lee mette a punto tutti quei procedimenti stilistici e narrativi che
rendono un film lineare e chiaro sia agli occhi degli spettatori più attenti
che di quelli più distratti. Fin dalle scene iniziali, infatti, sono messi
subito in campo con insistenza due elementi centrali e ricorrenti che
potremmo individuare come chiavi interpretative importanti in quanto
rivestono un ruolo simbolico alquanto rilevante: la rappresentazione del
tempo e dei suoi numeri uguali, che tornerà come tipico elemento di “semina
e raccolta” nel secondo atto e la scelta delle molteplici inquadrature
dall’alto. La macchina da presa onnisciente schiaccia le figure sul loro
sfondo e nella loro psiche, così da renderle fragili di fronte all’immensità
dello spazio e ai colori dei paesaggi. Ecco il perché di quella lunga
panoramica di presentazione che ci immerge in una cittadina del Midwest e
con la duplice funzione di collocarci in un luogo preciso di ambientazione
della vicenda - il luogo in cui generalmente si suole far vivere la
stereotipata famiglia americana perfetta - oltre che di far coincidere il
nostro punto di focalizzazione con quello di Michael Taylor (Ryan Reynolds),
giovane scrittore di successo, di ritorno a casa da New York per festeggiare
sua madre Lisa (Julia Roberts) che ha finalmente deciso di tornare a
dedicarsi a se stessa e prendere il diploma e che invece si trova ad
affrontare i preparativi per il suo funerale.
Una morte improvvisa in un incidente poco probabile diviene dunque la molla
dell’azione che attua quel meccanismo di “rivelazione della verità” su cui
si snoda tutto il film, meccanismo che mostra quanto di perfetto questa
famiglia non avesse decisamente nulla.
L’arrivo del Michael “grande” in quella che, come tiene a sottolineare alla
sua cuginetta Leslie, è la sua casa, diviene quindi un viaggio introspettivo
e un percorso iniziatico indissolubilmente legato alla necessità di
rielaborare il suo complesso rapporto con il padre-padrone Charles,
interpretato alla perfezione da Willem Dafoe nel suo già sperimentato ruolo
di “cattivo ma buono” (si pensi al personaggio di Green Goblin/Norman Osborn
in Spiderman). L’adesso e il prima sono messi a confronto costantemente: il
presente della morte di una madre a cui il ragazzo voleva una “montagna di
bene” e la rivelazione di una sua nuova identità di donna, il presente delle
difficoltà con sua moglie Kelly (Carrie-Anne Moss) e il presente di una zia
Jane matura (Emily Watson) viene fatto combaciare con il passato dei ricordi
e viene fatto quindi incastrare in maniera strategica ma spesso scontata,
attraverso un gioco di slittamenti sul piano visivo e uditivo, facendo
corrispondere il personaggio dell’isolato Christopher (Chase Eleison) che si
sente responsabile dell’incidente fatale e colpevole della morte della zia,
ad una sorta di alter-ego di Michael “piccolo”, come è evidente dalla
banalissima scelta di ricollocarlo sul ciglio della strada con la sua
decisione di scappare via e la corsa nel campo di grano.
Fireflies in the garden diviene dunque il titolo di questo film, oltre che
del romanzo che Michael ha appena concluso di scrivere e che deciderà di non
dare alle stampe per non denunciare la verità sul suo autorevole padre,
professore universitario titolare di cattedra, ed è ancora il titolo di una
terza opera nell’opera, una poesia di un autore di cui Michael si appropria
e rende sua, causando l’ira di Charles nell’indefinita e fastidiosa scena
della punizione nel garage. Questa sorta di meccanismo autoriflessivo emerge
chiaramente anche da quella che è la creazione reale del film: come dichiara
lo stesso Lee i due motivi di ispirazione per la stesura della toccante
sceneggiatura sono stati la visione di Conta su di me e la morte di sua
madre, perciò appare naturale collegare la vita dell’autore a quella del suo
personaggio, che a sua volta interpreta un altro personaggio e che si trova
poi incastrato nelle sue stesse maglie senza riuscire a emergere davvero
nonostante l’ottima interpretazione dell’attore protagonista, solitamente
conosciuto per ruoli comici.
Un incastro nell’altro sì, ma nel risultato complessivo di questa ricetta di
buoni elementi non scaturisce alcun piatto prelibato dal momento che non
tutti i pezzi del puzzle tornano al loro posto, soprattutto se si pensa alla
scelta conclusiva che non viene minimamente giustificata se non dal banale e
commovente filmino di famiglia o dalla logica spicciola di quel noto
proverbio che recita “i panni sporchi si lavano in famiglia”.
30:10:2008
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