LA SAISON DES HOMMES
di Moufida Tlatli

LA SAISON DES HOMMES è un'opera piuttosto interessante per un occidentale. Non stupisce che abbia vinto il primo premio visto che si tratta di un lungometraggio impegnato, in linea con le scelte ideologiche del festival: mostrare l¹oppressione a cui sono soggette le donne con un occhio particolare verso le altre culture. Il film faceva parte della selezione Un Certain Regard all'ultimo festival di Cannes.
La condizione delle donne mussulmane è particolarmente dibattuta, basti pensare al successo de IL CERCHIO. In questo caso Moufida piazza la cinepresa immezzo ad una famiglia allargata di donne tunisine e ne segue le vicissitudini come se fosse una di loro. Sono donne moderne, forti, ragionevolmente ricche e colte, non hanno l'obbligo snervante del velo, anzi, le più giovani scelgono pantaloni e maglietta; nel contesto generale del film questo spiace un po', perché si rendono irriconoscibili dal branco delle adolescenti che vestono all¹americana; diversamente da queste le donne nordafricane sono considerate tanto più belle quanto più in carne e femminili, una femminilità antica, da Mille e Una Notte: morbide stoffe che avvolgono i corpi secondo usanze per noi scomodissime ed impraticabili, gioielli dalla foggia ricca e complessa, secondo il gusto arabo, veli multicolore fermati in vita per impreziosire le vesti. Più di austere mussulmane che castigano la loro bellezza, queste donne sembrano le legittime eredi delle odalische e la loro comunità sembra un harem pieno di pace ed armonia, dove le donne si aiutano l'un l'altra e si considerano tutte sorelle, dove si condividono gli stessi dolori, dove la maternità è vissuta come un avvenimento collettivo, una gioia ed una responsabilità comuni. Il quadro è ancora più affascinante se consideriamo lo sfondo: l'isola di Djerba, un paradiso di luce e palme, circondato dal mare, dove le automobili sono rare e le vibrazioni dei tamburi si mischiano con i canti di preghiera nell¹aria del crepuscolo. Eppure ogni harem ha dei padroni, che sia una dolce prigione come ce lo dipinge Ozpetek in HAREM SUARE', oppure una versione comunitaria, come in questo caso. In primo luogo si deve rispetto ed obbedienza alle più anziane, tanto più se sono legate agli uomini da rapporti di preferenza o parentela. In definitiva gli uomini sono i veri padroni e forse le donne di Djerba godono di una tale libertà proprio perché mariti, padri e fratelli sono lontani: la maggior parte di loro lavora a Tunisi, dove hanno piccoli negozi di tappetti o di altre mercanzie. Alle donne, nonostante le lamentose richieste, non è permesso seguirli, la loro casa è a Djerba e a Tunisi non saprebbero dove sistemare la numerosa famiglia cui devono badare. Così le donne aspettano, facendo quadrato intorno alle più coraggiose e alle più amorevoli per sopportare la solitudine e la paura dell¹abbandono. Dopo undici mesi i lavoratori hanno accumulato un bel gruzzoletto e si concedono un mese di vacanza per riabbracciare le proprie famiglie e, di norma, rimettere incinta le mogli che nel frattempo hanno partorito. E' la saison des hommes, ed è l'unica grande festa per le donne: i preparativi durano per settimane, mogli e figlie si agghindano, si spalmano vicendevolmente unguenti profumati e si decorano il corpo con l¹henné. L'immagine più bella del film ritrae proprio cinque donne che, dopo esserrsi tinte i capelli con l'henné, vanno a sciaquarsi nel mare: stanno in circolo, tenendosi per mano ed indossano lunghe tuniche colorate. Al loro arrivo gli uomini sono accolti con grida di gioia, secondo l'usanza berbera, vengono lavati da mani amorevoli e serviti con un pasto luculliano. Ma la festa dura poco ed un mese passa in fretta.
Aicha, la protagonista, trova il coraggio di partire per Tunisi e rompere la tradizione. La condizione che le aveva imposto il marito era un figlio maschio, ma quando finalmente, al terzo tentativo, nasce un maschio si scopre che il bambino è autistico, una triste negazione di una cultura patriarcale che vede nel maschio l¹unica vera realizzazione di una famiglia. Così Aicha decide di tornare a Djerba, dove il bambino, nella sua misteriosa fragilità, può vivere in un ambiente più tranquillo, protetto dalle braccia instancabili delle donne.
In una società di questo tipo la maternità è percepita come l¹unico strumento di potere della donna, la conferma della sua femminilità e della sua identità; perciò una donna del gruppo, una giovane ancora più sola delle altre dal momento che suo marito, dopo la prima notte di nozze, non è mai più ritornato, afferma: "Nel mio ventre non c¹è vita, c¹è solo grasso ed il gorgoglio dei miei intestini".
Il destino proibitivo delle donne di Djerba spinge le più giovani a rinunciare al matrimonio ed a formare una famiglia di cui non si sentono di portare il peso. A Djerba le donne non sono tenute a lavorare per incrementare l'attività del marito: Aicha tesse tappetti, ma va contro le tradizioni visto che solo l'uomo può mantenere la donna. A Djerba, se una ragazza viene violentata, deve nascondersi e non parlarne con nessuno. Ma a Djerba ci sono anche delle donne che parlano il linguaggio dell'amore, della compassione, che sanno ascoltare e condividere, sorelle per sangue o per destino, che conoscono il significato di una carezza.

Elena SAN PIETRO
03 - 01 - 02


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