la ragazza del lago

di Andrea Molaioli

Con Toni Servillo, Valeria Golino

64mo festival di venezia

di Gabriele FRANCIONI

Un saggio di regia e recitazione come non se ne vedevano da tempo in Italia, in grado di percorrere con assoluta lucidità e padronanza stilistica il crinale sul quale vediamo transitare anomalie di varia natura: da quella eclatante del paesaggio (il nordest italiano montano, doppio della Norvegia raccontata in “Don’t Look Back”, il testo di Karin Fossum cui la pellicola s’ispira), alle altre, più sommesse, che segnano esistenze normalmente esposte al rischio di tragiche derive.

Entriamo subito in medias res, lanciati nella tensione sospesa degli zoom sulla straordinaria scena del crimine (il lago), dove il nostro sguardo inquadra il commissario Sanzio (Toni Servillo) e il suo braccio destro Alfredo (Nello Mascia), disposti entro la cornice di un’inquadratura che li fissa dentro la tragedia.

Chi ha parlato di “estetica televisiva” per il bel film di Andrea Molaioli è in malafede o incompetente: i campi lunghi sono esclusi dal piccolo schermo e, analogamente, i movimenti della macchina da presa che portano ad essi o da essi derivano.

Basta l’incipit appena descritto per dire di una consapevolezza dei propri mezzi superiore alla media e confermarci che, se qualcosa si muove nel cinema italiano, questo accade alla periferia del sistema, dove molti esordienti trovano terreno fertile per esprimersi in libertà.

LA RAGAZZA DEL LAGO è la narrazione a volte tesa, a volte sospesa, di tanti piccoli dolori nascosti sotto la pelle di una quotidianità rarefatta, dispersa in mille rivoli sotterranei che confluiscono, più o meno simbolicamente, nel lago che tutto trattiene, comprimendo ansie e paure, diversità e alienazioni in una calma piatta tutt’altro che catartica.

Il commissario Sanzio, innanzitutto, segue il pendolo che si muove dall’ovvietà del male (il lavoro) all’eccezione privata (la malattia mentale della moglie, Anna Bonaiuto). Toni Servillo, sommessamente tragico, intreccia i due percorsi, portandosi a casa - letteralmente - il lavoro, intimamente sconvolto dall’idea che una giovane, QUALSIASI giovane possa nascondere un segreto fatale, al punto da cominciare a scavare le nicchie del dubbio in quel poco di pulito e bello che la vita gli riserva (la figlia, sottoposta a continui interrogatori).

La morte improvvisa di una ragazza del luogo, avvenente, sportiva, epitome dell’incorruttibilità di ciò che permane nella fissità estatica della gioventù (la salute, la perfezione fisica), smuove le fondamenta, tra il bucolico e il piccolo-borghese, di un paesino del nordest montano, Italia.

Deposta come un’Olympia (o come una Black Dahlia) ai bordi del lago, Anna Nadal non ha opposto resistenza a chi le ha dato la morte.

Questa passività veicola il senso profondo del male: esso viene e trova campo libero, è quindi onnipotente, onnivoro. è il Male, non noi (adesso lo capiamo) a guardare il commissario e Alfredo in quello zoom dell’inizio: mette a fuoco, una dopo l’altra, le sue vittime.

Le prende di mira.

Male non è necessariamente morte, ma frattura progressiva (che procede, va avanti) sul solido edificio di certezze su cui viene costruito il coacervo di esistenze sempre in bilico. Anna, morendo, ha solo aggiunto peso sul piatto della bilancia, facendo sì che queste esistenze si predisponessero alla caduta lenta o al crollo, come una frana che riempie il lago e il lago risponde, inondando altre vite, ormai pronte all’uscita progressiva dai propri argini emotivi. Succede al commissario, succede alla figlia Francesca, succede all’ex-ragazzo di Anna, succede a tutti.

Escono dai propri argini emotivi.

Non sembra esserci risposta plausibile alla ricerca dell’assassino, stancamente identificato dal commissario nell’ex-fidanzato della ragazza, anch’egli teso, lacerato, mentitore, perché si fa specchio di una realtà che gli ha mentito, raccontandogli prima storie di felicità, poi svelando un finale imprevisto, orribile.

Altrove, il grande Fabrizio Gifuni (Corrado Canali, amico intimo di Anna), sembra chiamarsi fuori dal cuore nero della vicenda, ma apre squarci su altri dolori privati, passando così il testimone del testo filmico (è così per tutta la durata della pellicola: continui passaggi del testimone) all’ex-moglie Chiara (Valeria Golino).

è come se Sanzio dovesse seguire l’effetto domino che abbatte una dopo l’altra figure umane disposte come statuine sullo sfondo di una natura attonita, algida e assolata allo stesso tempo.

Su Chiara, in effetti, sostiamo di più, perché qui la narrazione si avvolge su se stessa per poi ripartire, in quanto ha trovato il buco nero, il non-centro (siamo dentro una spirale, nulla si chiude, tutto rimane aperto) del dolore più grande: la perdita di un figlio, avvenuta secondo modalità banalissime.

In lei c’è prima apertura, poi chiusura, quindi ancora sofferta apertura, come se le si strozzasse l’urlo in gola e il racconto passasse attraverso un collo di bottiglia strettissimo, insostenibilmente doloroso.

Detto che Sanzio ha passato al vaglio anche altre ipotesi (Mario e suo padre, differentemente diversi, e l’allenatore di hockey) tutte equipollenti, arriviamo finalmente all’unica verità: è il LUOGO che ha ucciso Anna, l’environment. Nessuno in particolare e tutti, indistintamente, sono colpevoli!

Il testo di Sandro Petraglia prosegue, tessendo la tela fino a un’inaspettata conclusione che ha, nel tono dimesso e trasandato, cupo e affabulato, il suo senso ultimo.

Meravigliosa la scena attorno a un tavolo, sorta di Ok Corral domestico, dove Servillo e uno degli indagati - che non sveliamo - mettono in atto una ritirata a due, piuttosto che una sfida infernale, lasciando cadere il senso ultimo della storia nello spazio vuoto tra i loro corpi, seduti, a luce bassa. Il “colpevole” manovra il bordo della tovaglia come un’arma rivolta verso se stesso, facendo implodere la confessione in un abbassamento di voce magistrale e nello sguardo trasversale del “reo”, attraverso il quale, FORSE, per un istante il Male va appalesandosi.

La sceneggiatura, che orchestra alla perfezione dialoghi e scene, stratifica magistralmente la materia narrativa con una continuità non rintracciabile nei testi per il cinema.

è l’insieme, peraltro, proprio quell’inestricabile continuum di persone e cose, umanità e natura che rimane il vero centro del film.

Gli attori contribuiscono con la mente e l’anima, fino a un coinvolgimento, immaginiamo, doloroso e pieno, alla riuscita del film.

Andrea Molaioli si propone con grande autorevolezza, nel solco di uno stile quasi sorrentiniano, che trova nella fluidità della m.d.p. e nelle piccole anomalie di una regia, e di un montaggio, mai banali una riconoscibilità del tratto assolutamente rara per un’opera prima.

Detto dell’incipit e della chiusura, dobbiamo ricordare i movimenti avvolgenti negli interni, a seguire, pedinare l’inattingibile verità, più che i corpi.

E geniali intuizioni sparse un po’ ovunque, come un lento carrello all’indietro a seguire Servillo e Golino che camminano e dialogano: nessuno avrebbe utilizzato, a mo’ di sospensione del discorso e cambio di registro, un’istantaneo flash delle schiene dei due attori ripresi per un attimo da dietro, poi nuovamente di fronte.

Questa è regia cinematografica, altro che “estetica televisiva” !

Qualcuno (Adolf Loos) diceva: “Nei dettagli c’è Dio”.

 

P.s. La “Indigo Films” ha prodotto anche i film di Paolo Sorrentino, Apnea di Roberto Dordit (vedi recensione su Kinematrix) e La guerra di Mario di Antonio Capuano.

Leggi il resoconto de "I Suoni del Tempo", bellissimo spettacolo di Gifuni/Bergamasco, che tornerà a teatro tra un paio di mesi, e dal quale a inizio 2008 verrà tratto un cd

Voto: 27/30

08:09:2007

 

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 la ragazza del lago
Regia: Andrea Molaioli
Italia 2007, 95'
DUI: 14 settembre 2007
Genere: Drammatico