la pelle che abito
di Pedro Almodovar
con Antonio Banderas, Elena Anaya

di Marco Grosoli

 

25/30

 

è un tentativo (non il suo primo, non il suo più riuscito, ma probabilmente tra i suoi più riusciti) di scrollarsi di dosso il melodramma. Il melodramma in tre parole è questo: superficie vs. profondità. Comincia con la superficie (il corpo risultato dalla chirurgia). Continua a colpi di tortuosi flashback inabissandosi nella profondità (cosa c'è sotto quel corpo), fino a trovare che il simulacro, Judy Barton trasformata in Madeleine in VERTIGO, non è, come in VERTIGO, Madeleine stessa, ma qualcuno che, come lui stesso (come Scott, come il chirurgo), è a un tempo causa ed effetto della perdita del proprio oggetto del desiderio: da un lato il ragazzo è causa dello stupro che costa la vita alla figlia, dall'altro costui è uno stupratore non a causa sua, ma a causa del fatto che la ragazzina è renitente in quanto è già traumatizzata dalla morte della madre, morte identica a quella che sarà la sua (oltre che a quella di Madeleine/Judy nel solito VERTIGO). Non è vendetta nei confronti del ragazzo.

è la doppia negazione (e dunque recupero positivo) della perdita dell'oggetto del desiderio: recuperando la causa della perdita a propria volta causata da un'altra perdita (il ragazzo, causa della morte della figlia a propria volta causata dalla morte della madre), si recupera transitivamente la perdita originaria (la morte della moglie). La superficie (il corpo della moglie) si sutura così con la profondità (ciò che c'è dentro). L'oggetto del desiderio, sulla cui superficie si pone lo sguardo maschile, rende esplicita la propria derivazione genetica da quello sguardo, il quale per funzionare deve occultare questa derivazione (necessariamente "in profondità"). Il che disattiva, di fatto, la presa dello sguardo sull'oggetto del desiderio, il quale appunto (il ragazzo/moglie) si vendica del chirurgo.

L'ultima scena, finalmente al di là di superficie e profondità (entrambe percorse fino al loro esaurimento) è un melodramma in cui la deriva delle identità rende impossibile qualsiasi pathos, qualsiasi agnizione. Una situazione potentemente melodrammatica come il ritorno dalla propria madre accompagnato dall'essere finalmente diventato l'oggetto del desiderio dell'oggetto che si desidera (la collega lesbica) viene soffocato dalla esplosiva contraddittorietà di queste sue due componenti: se è il figlio non è l'oggetto del desiderio della lesbica, ma se è quest'ultimo non è più il figlio. In altre parole: un'ingegnosissima maniera affinché il melodramma fagocita se stesso. Il conflitto, anima del melodramma, non gioca più a favore del pathos ma contro di esso.

Qual è il problema? Il problema, credo, è che tutto il film è girato in funzione della scena finale. Di conseguenza, e oltre al fatto che rimane ancora troppo prigioniero del relegare la superficie al design delle immagini e la profondità al racconto, Almodovar non arriva a raggiungere quello che sogna: che la concatenazione narrativa annulli se stessa. Il fine qui è decisamente oscurato dal mezzo, dall'ingombrantissimo mezzo (la strutturazione narrativa ultraanalitica e elaborata), il quale non si annulla affatto nel fine come vorrebbe. Nei "Los abrazos rotos" secondo me c'era riuscito. Qui no, o meno. Qui la profondità serve ancora troppo a "spiegare" la superficie, il che fa sì che i due termini di questa polarità non vengano veramente disattivati.

 

08:11:2011

la piel que habito

Regia Pedro Almodovar
Spagna 2011, 117'

Warner Bros. Pictures Italia

DUI: 23/09/2011

Drammatico