io non sono qui

di Todd Haynes

Con Cate Blanchett, Christian Bale

64mo festival di venezia

  di Gabriele FRANCIONI

Todd Haynes continua a sondare i diversi esiti di esistenze costruite su opposte forme di artificio e pregiudizio, alternando, con la sicurezza sospesa di un cinema cerebrale, profondi sguardi di sorvolo sul gelido conformismo microfamilare e le sue derive psichiche  (SAFE/ FAR FROM HEAVEN) e catartici abbandoni all’antitetica potenza liberatrice esperita nel mondo dell’arte, con indicativa attenzione all’universo del Rock (VELVET GOLDMINE/ I’M NOT THERE).

Altrettanto chiara l’opzione decostruttiva nei confronti di decadi ascritte alla voce “modernità recente” (e quindi presunto territorio di avanguardie comportamentali): gli 80’s di SAFE, i 70’s del quasi-biopic bowiano, i 50’s del sirkiano FAR FROM HEAVEN e i 60’s della pellicola veneziana, perché inequivocabilmente i più significativi nell’immensa produzione (e fuga) dylaniana.

Con sguardo da entomologo, Haynes si muove saltando da un campo all’altro, rispondendo all’urgenza analitica di passare al setaccio i comportamenti di chi subisce l’artificio, adeguandosi a un sistema codificato di (co)azioni, e di chi, in fuga da ogni conformismo (l’Artista, l’Autore), crea l’artificio di nuovi decaloghi comportamentali, quali possono essere rintracciati nel mutevole travestimento dell’Artista stesso (il composito look del glam-rock di Bowie, Iggy Pop e Brian Ferry/Eno va letto alla stregua delle continue sparizioni dylaniane, rinnovato nel modo di apparire e nei contenuti veicolati, come durante la nota svolta cristiana a cavallo tra Settanta e Ottanta, qui presentata in uno dei segmenti del Dylan-Christian Bale).

Haynes pedina Robert Zimmerman sapendo di avere a che fare con un’entità fantasmatica, polimorfa, sfaccettata, quasi l’ebreo errante privo di terra madre.

La moltiplicazione del musicista nei corpi di attori infiniti è una straordinaria intuizione, poiché espone come meglio non si potrebbe la riproducibilità tecnica di Walter Benjamin applicata a corpi warholiani, tanto sono privati della propria identità. I’M NOT THERE, nomen omen, è a tutti gli effetti l’antinarrazione di un clone di Andy Warhol, cioè Dylan stesso, incapace di relazionarsi verso l’alterità che lo circonda se non in forma di ri-flessione del Sè che gli sta davanti.

“He reflects back”, esattamente come la platinata strega della Factory, con la sola (anche se fondamentale) differenza di porsi come vuoto per difendersi da quella alterità, che invece Warhol succhiava fino al midollo, attaccandola da ogni lato col suo sistema di silenzi e di macchine da presa da grandefratello dell’anima. Dylan veniva attaccato e rispondeva, all’opposto, attraverso un’ipertrofia verbale spesso scambiata per poesia.

è stato un gande musicista, ma I’M NOT THERE, che pur fa risiedere il proprio senso e valore in altro da ciò, conferma l’immagine di qualcuno che avrebbe sempre voluto essere altrove da dove si trovava.

Il film, infatti, ha in questo il suo core: lo statement dylaniano sulla propria arte, che sarebbe stata solo un sistema di segni sganciati da qualunque fardello attinente al significato. L’entità Dylan, assediato dai media assetati (proprio) di segni, ne produceva in continuazione, in una sorta di loop destinato prima o poi ad implodere in quelli che saranno i suoi ritiri dalle scene.

In questo senso (sistema di segni e basta), I’M NOT THERE è un capolavoro.

Diversamente rischia la deriva dell’autocompiacimento, esposta anche al rischio di rovinare l’intuizione dei  6 differenti Dylan attoriali, dal momento che solo Blanchett-Bob fornisce una prova straordinaria (e non necessariamente per l’assimilazione perfetta della morphé di riferimento), laddove Gere per mille motivi non va bene e lo stesso Ledger non fitta quanto potrebbe.

“Hanno portato via il significato”, si dice da qualche parte nel film.

Ogni segmento del film è un periodo/canzone di Robert Zimmerman, riflessa nella riproposizione di un cut and paste visivo (anch’esso ridotto a mero sistema di segni), entro il quale continua a definirsi la peculiarità haynesiana cui si accennava all’inizio: trascorrere entro periodi storici, pesandone il quid di artificium e il quantum di prae-juditium.

Ecco allora il Dylan-ragazzino di colore, piazzato in un treno merci molto kerouachiano, e adottato da una borghesissima famiglia del 1959 (siamo dalle parti di FAR FROM HEAVEN, stessi arredi finti, stessa mise en scène).

Sono gli inizi protestatari, durante i quali Zimmerman rimandava indietro segni di finto impegno politico, puntualmente negato durante la nota fase elettrica, della quale Haynes rifà la confezione, arrivando a proporre l’atteggiamento depalmiano in REDACTED (antiteticamente a NO DIRECTION HOME di Scorsese), ovvero documentari riproposti su specie fictionale.

Ciò che sembrava massimamente reale sfuma e svanisce in un universo-nebbia, appunto, di soli segni. Implodiamo tutti in una perdita d’identità dovuta al fatto che arrediamo le nostre vite in spazi artificiosi e neghiamo noi stessi impedendoci, attraverso pregiudizi, l’esplorazione di ciò che naturalmente e semplicemente saremmo se non fossimo costretti a entrare entro un sistema di comunicazione continua tra entità, che ci (e ne) elide i bordi, portandoci all’osso di un nulla posticcio e dolente.

 

Voto: 26/30

04:09:2007

 

Tutte le recensioni di Venezia  2007

I'm Not There
Regia: Todd Haynes
Stati Uniti d'America 2007, 135'
DUI: 07 settembre 2007
Genere: Drammatico, Musicale