IO NON HO PAURA
di Gabriele Salvatores
con Giuseppe Cristiano, Mattia Di Pierro


In un posto del sud, d’estate. Michele, dieci anni, passa la vita tra la monotonia del piccolissimo paese d'origine e le eccitanti fughe tra i campi di grano insieme ai pochi coetanei. Durante una di queste scopre per caso un buco nel terreno coperto da una lastra di lamiera. Un incredibile segreto cambierà per sempre la sua vita, segnando la fine dell’infanzia e la conquista di un nuovo coraggio.Che Salvatores riesca a mettersi comunque in gioco non è più una novità. Attraverso Denti (tra le più recenti, la sua prova più sorprendente, interessante, quanto irrimediabilmente irrisolta) e Amnesia (che forse troppo risente di certe tendenze modaiole e postmoderniste alla Tarantino) aveva tentato, peraltro riuscendoci, ad azzardare linguaggi e stili inconsueti, perlomeno, nel cinema italiano. Con quest’ultimo film il regista torna ad una narrazione più lineare, tenendo saldamente la mdp sul cavalletto e a farla elegantemente scivolare su un carrello. Ma la voglia di contaminare e affascinare resta la stessa. Anzi, forse si avvicina più di altre volte alla maturità. E per farlo, paradossalmente, si affida ai bambini. Il mondo che questi fanciulli vivono è fatto di adulti ambigui, sorta di orchi famelici e antropomorfi che occupano arrogantemente letti e bagni, padri avidi ma a volte anche vulnerabili e sfortunati che sembrano abitare una fiaba acida e spietata. E così la vicenda si tinge di nero (del buco, dell’ombra, del lato oscuro che ognuno nasconde) e oro (del grano, del sole, della luce), colori dominanti del film che bene vengono riflessi dalla straordinaria fotografia di Petriccione e dalle scenografie sempre sobrie, curate, funzionali di Basili. Ma all’accattivante e fascinosa messa in scena, alla regia quasi perfetta (una volta per tutte: se Muccino è bravissimo a girare, come dicono molti, Salvatores diventa automaticamente sinonimo di Orson Welles), agli attori tutti nelle loro parti come quasi mai accade nel cinema italiano, qualcosa inevitabilmente, a fine visione, stride. Stride ciò che di solito stride nei film di Salvatores, e cioè la profondità della vicenda. Su cosa vuole concentrare l’attenzione il regista? Sull’opposta e complementare natura dei due bambini (il bianco e il nero di conradiana memoria)? O su come un bambino vive la crescita, per quanto particolare? O, ancora, getta l’occhio alle realtà sociali di un sud dimenticato e tragico che coinvolge inevitabilmente una famiglia? Al regista forse tutto ciò stava a cuore e, come spesso accade, sfugge. Si ha la sensazione che l’affresco rimanga non finito, che il colore sulla tavolozza sia terminato prima del tempo. Che i personaggi siano rimasti lì, imprigionati nella pellicola con ancora molta voglia di raccontarsi. Ma i pregi e i difetti del film si rincorrono, si esaltano e si annullano a vicenda. Le immagini rimbalzano nella memoria più volte e fanno pensare a altre immagini e a altri film. Uno su tutti: Non si sevizia un paperino di Lucio Fulci, che da geniaccio quale era, ambientò trent’anni prima di Salvatores un thriller nell’assolata e luccicante campagna lucana, con bambini inquietanti almeno quanto gli adulti e con un cielo talmente azzurro che soltanto il buio della terra (e dell’animo umano) poteva fronteggiare. Io non ho paura non è un film cattivo (nessuno di quelli da lui girati lo è, ad eccezione forse di Denti), e alla cinica morale fulciana risponde con la sognante maturità della saggezza. Salvatores rimane comunque colui che non si fa stritolare dal forzato naturalismo provinciale che attanaglia il cinema italiano e  rivendica (seppur con modesta forza polemica) una personale poetica della regia.

Link: http://www.iononhopaura.it


Voto: 28/30

Paolo FAZZINI
30 - 03 - 03

IO NON HO PAURA è uno splendido film di uno splendido regista!
 Che –coerenza vuole- definiamo tale anche perché finalmente non è popolato da Ugo Conti o Sergio Rubini e dove gli Abatantuono e i Catania volano basso, nascosti, sottotraccia. La bellissima storia di solidarietà infantile imbastita da Ammanniti sulla scorta, lui più giovane, di ricordi adolescenziali di fine anni ’70, ancora impregnati di acre sapore di rapimenti e telegiornali come mezzo per la diffusione di comunicati di questa o quella associazione politica o a delinquere, regge da sola le quasi due ore della pellicola, appoggiandola sul doppio abbandono e isolamento vissuto dai protagonisti, entrambi lontani o allontanati dal cuore della famiglia, meglio, dalla figura del padre, che si annusano, si ritraggono, si riavvicinano in quel buco di terra, che è anche metafora dello scavo, della eccitazione per la scoperta di qualcosa di diverso, di proprio e privato e di non condivisibile con la famiglia che tutto controlla.
 Il ragazzino protagonista non familiarizza troppo con i coetanei, vive di distese di grano potentino, di libertà di corse in bicicletta attraverso quella luce irrappresentabile del Sud e soprattutto è attratto da quel doppio, voyeuristico modo di crescere attraverso la visione di qualcosa che gli è ignoto e oscuro – la stanza dove confabulano i genitori co-rapitori e, ovviamente, il nascondiglio del bimbo rapito- verso i quali si muove come verso la desiderata/ temuta conoscenza di qualcosa che lo renderà meno puro.
 Non sa, non capisce la realtà, galleggia, come si diceva, sulla bolla di sapone che ancora si frappone fra lui e le cose vere, ma è felice, un esserino di dieci anni in procinto di “conoscere” e di compiere, suo malgrado, un percorso tragico, analogo e inverso, a quello che ha bruscamente portato il suo doppio milanese di ricca famiglia a vivere la vera vita talmente in fondo, non solo metaforicamente, da credersi morto e come tale, piccolo allucinato e terrificante zombi sporco di terra e cieco, comportarsi.
 Un film privo di qualunque eccesso, ma allo stesso tempo capace di mescolare i “generi” come nessuno da noi osa fare: non c’è nessuna volgarità di serie “b” nell’usare registri orrorifici quando deve essere rappresentato lo stato in cui versa il piccolo rapito, che è una mummietta segreta, scura, nascosta sotto un panno scuro, capace di mangiare e bere senza mostrare il viso, come un gremlin o un baby-killer in fase di autodifesa. E, in quest’ottica, è geniale la rivelazione del corpicino bianco, della bocca terrosa e dei capelli scarmigliati, biondi e lunghi dello zombi-baby che esce dal sacco e si mostra alla sua antitesi/ alter-ego dalla pelle meridionale e scura, capelli corti e neri. Girata, la scena, in parte in soggettiva, anche per mostrare le piccole mani arrossate e ferite, ha tutto del film dell’orrore, ma questo ci piace, non ci spiazza, ed è funzionale al credere fortemente che a volte i termini definenti i generi, non siano casuali o inaccettabili se associati a un contesto che “lavora” l’orrore come quotidianità o sopravvivenza, cioè come materia del narrare, cui quel “modus” rappresentandi, per così dire, è parente.
 Perché l’horror [ se ne parlò anche per DENTI ] deve essere solo gore sanguinolento , parata di convenzioni stilistico-narrative o legate al decor […] del caso? Ma non è più interessante –rimanendo tale anche il cinema di genere tout-court- che pezzettini di questi “generi” o “sottogeneri” facciano periodica e motivata incursione nel “sopramondo” dei film considerati di categoria superiore?
 DENTI era un film inclassificabile –bene!- proprio perché pieno di allucinazioni oniriche e di puro horror di sola visione –i denti, ad esempio- o di storia – l’uomo squartato nella vasca- che confermava quanta abilità Gabriele possedesse già allora nella benvenuta “confusione” dei livelli e dei modi della rappresentazione.
 Tutto ciò, forse, gli deriva dalla formazione teatrale, che era un laboratorio infinito di prove e sperimentazioni, e dalla libertà d’immaginazione che ne era alla base. Pensate –fatti tutti i distinguo che si vuole, naturalmente- l’analoga libertà, il folle cromatismo, l’ipertrofia scenografica di un Bene, anche lui proveniente dal teatro, nelle sue poche prove cinematografiche.
 Tornando al film, va detto della solita capacità di Salvatores di gestire i ritmi del racconto, coadiuvato da un montaggio che rallenta e accelera a seconda che ci troviamo tra le quattro mura illuminate da luce naturale dello scarno casolare di famiglia, o che ci si muova all’esterno, o che siamo vicini alla casa di terra del rapito.Così come Gabriele conferma, e questa volta con risultati mai sopra le righe, neanche da parte di Abatantuono, la sua capacità unica nel dirigere gli attori, immergendoli –forse- oniricamente in tempi e situazioni totalmente altre da quelle della loro quotidianità. Sembra una tautologia del mestiere di chi recita, ma non è così, poiché con S. le figure recitanti sono veramente in trance, staccate dalla pratica del “lavoro” sul set e abbandonantesi ai loro personaggi-corpi con totale fiducia e convinzione, ipnotizzati dal monaco zen napoletano-milanese, noto da tempo per saper creare atmosfere uniche su set che dimenticano la realtà –e il reale?- circostante.
 Ma questo non è altro che la materia del cinema!
 Certo, poi il film appassiona, coinvolge, fa meditare anche per il suo legame con fatti legati alla cronaca di qualche decennio fa, ci porta sul piano del ricordo collettivo, fa “discutere” i capannelli di gente fuori dalle sale….d’accordo: ma non è necessariamente SOLO questo, il COSA rispetto al COME, a fare di un film un capolavoro.

 

 

Voto: 30/30

Gabriele FRANCIONI
16 - 04 - 03


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