MI CHIAMO SAM
di Jessie Nelson
con Sean Penn e Michelle Pfiffer



Il film è vivamente sconsigliato a chi ha odiato FORREST GUMP, VOGLIA DI TENEREZZA, KRAMER CONTRO KRAMER, L'ATTIMO FUGGENTE, limitandoci a citare solo alcuni titoli. Se invece amate passare 130 minuti con i kleenex a portata di naso (come la mia vicina di poltrona) allora MI CHIAMO SAM è il film che fa per voi. Tutto sommato la pellicola merita di essere vista anche se vi ponete nella prima delle due categorie, se non altro per la superba bravura di Sean Penn, candidato infatti all'Oscar - vedere il trailer in lingua originale è tutta un’altra cosa, Sam non parla per nulla alla Forrest Gump, come sembrerebbe dal pur ottimo doppiaggio - o per la straordinaria metamorfosi di Michelle Pfeiffer (da gelida donna in carriera a tenera mamma pentita). Certo, non si può vedere il film senza pensare al toccante e crudele LADYBIRD LADYBIRD di Loach, peraltro ispirato ad una storia vera, ma la somiglianza si ferma qui, nei tremendi danni che l'assistenza sociale può fare allontanando i figli da famiglie ritenute non adatte a crescerli. Se Loach sostanzialmente documentava una triste vicenda di povertà e incomprensioni (consiglio di recuperarlo appena ne avete la possibilità), la Nelson si limita a mettere in scena un dramma ben confezionato, se vogliamo anche banale ma retto da un casting eccellente: si veda la vicina di casa Dianne Wiest o la stessa Dakota Fanning/Lucy. Certo, se quella di Sam fosse stata una vicenda raccontata alla NIENTE PER BOCCA, avremmo avuto un ottimo film di denuncia sociale: rimane invece un blockbuster strappalacrime, con intensi momenti di recitazione (basterebbe il momento in cui Sam Dawson/Sean Penn cerca di spiegare alla accusa perché può definirsi un buon padre) e una colonna sonora che è una vera e propria sorpresa (vi dico solo che il protagonista ama i Beatles, e spesso usa le loro canzoni per spiegarsi). La vicenda è presto detta: Sam Dawson è in pratica un uomo adulto rimasto mentalmente un ragazzino di sei anni. Nel momento in cui sua figlia Lucy compie sette anni, si pone il problema, per l'Assistente Sociale, di allontanare la bambina da un padre che ha in pratica l'età mentale di un suo coetaneo. Il finale è aperto, non sappiamo se Dawson riavrà in casa la figlia, ma in ogni caso la famiglia si è allargata. E' chiaro che il film pone degli interrogativi etici non indifferenti, che vengono in pratica riassunti in quella domanda ("come possiamo essere così diversi, pur essendo così uguali?") che Sam a fatica legge a Lucy. Se un appunto si deve fare, bisogna dire che tutti gli importanti interrogativi che una tale vicenda può porre, vengono liquidati dialetticamente nell'aula di tribunale ("lei non è un buon padre", sostanzialmente dice l'accusa - "e chi non commette errori?" ribatte la difesa), ma appunto Jessie Nelson non è Ken Loach - e in USA in effetti il film si è rivelato un flop clamoroso. Il mio consiglio rimane comunque quello di andare a vedere il film, sapendo cosa andate a vedere. Ho due voti, in testa: se penso a chi ha odiato VOGLIA DI TENEREZZA e affini, alla mielosità della storia, al politically correct, alla vicina che continua a singhiozzare e al fatto - già da solo terribile - che l'androide Data sia finito a fare da cassiere in un negozio di scarpe, mi viene in mente un 18/30 - dovuto principalmente alla bravura dei protagonisti. Se devo dare il voto alle emozioni che MI CHIAMO SAM provoca - se comunque dentro di noi si muove qualcosa, anche se facciamo finta di nulla - e accettiamo così i pacchetti di kleenex, sorvolando sul fatto che tutti siano buoni con Sam o che un avvocato di grido lavori gratis per un ritardato mentale, allora il film merita un 28/30. Ma dovendo dare un giudizio unico, direi che quello sotto è il voto più politicamente corretto che posso assegnare.

Voto: 23/30

Matteo FERUGLIO
21 - 03 - 02


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