IL MESTIERE DELLE ARMI
di Ermanno Olmi
con Hristo Jivkov, Dessy Tenekedjieva, Sandra Ceccarelli e Sergio Grammatico



Quello di Ermanno Olmi è un cinema difficile, e non tanto nella scelta delle tematiche, ma per come si presenta allo spettatore. Il primo impatto con IL MESTIERE DELLE ARMI non è infatti dei più agevoli: la voce fuori (ma in parte in) campo è quella di Pietro Aretino, la vicenda è ambientata negli ultimi mesi del 1526 ed anche il linguaggio è coerente al contesto scelto. Non è semplice, poi, anche in ragione del momento storico in cui il regista ha scelto di collocare la finzione filmica: è il momento di trapasso tra il tardo Medioevo e il Rinascimento, Carlo V e i suoi mercenari intendono conquistare Roma, e a difesa del Papa c'è l'armata pontificia con a capo Giovanni De' Medici. Un'ambientazione e un quadro storico non molto richiesti, almeno di recente, dal cinema, forse anche in ragione di una loro scontata ed eccessiva distanza da un pubblico, che potrebbe quasi averne soggezione.
Per Olmi, tuttavia, questa è l'occasione per raccontare soprattutto la vita emblematica di un uomo: un grande uomo, la cui grandezza non gli ha permesso però di vincere i grandi passi della Storia. Giovanni de' Medici - viene detto spesso - è un grandissimo combattente, un maestro nell'arte della guerra, un uomo di cui qualcuno critica perfino l'eccessiva "passione" per il combattimento: quell'amore che lo spinge a cercare sempre lo scontro, anche di notte e se nevica. E' un valoroso, ma qualcuno è più furbo di lui, e l'abilità di Olmi è proprio nel preparare con cura lo scontro tra le armate, nell'arricchire le sue spettacolari inquadrature di armi, cavalli e grandi spazi, nell'alzare la tensione per tre quarti del film per poi renderla vana quando, a battaglia appena iniziata, un colpo di cannone ferisce a morte Giovanni. L'onore non ha più senso, o almeno ha assunto altri parametri: la lealtà e il rispetto del nemico sono ormai un segno di debolezza.
Non abbiamo rovinato "la sorpresa" parlando della morte di Giovanni in battaglia, perché ciò è noto già nei primissimi secondi del film. Olmi ha scelto infatti una costruzione a macro-flashback, partendo dalle esequie del cavaliere per chiudere il cerchio nel finale: si tratta di un'operazione simile, ad esempio, a quella dell'OTELLO di Welles, dove i funerali del Moro venivano anteposti al resto del racconto. Così facendo Olmi sottrae a chi guarda l'attesa degli eventi: Giovanni è morto il 30 novembre del 1526; detto questo la narrazione può riprendere da dieci giorni prima. L'attenzione allora si concentra esclusivamente sul perché di quella fine, sui dolori e sulle pulsioni dell'uomo Giovanni de' Medici, sul suo amore per le donne (davvero efficace il montaggio alternato sul dolore e il ricordo d'amore verso la fine) e sulle ragioni profonde della fine di una ragione di vita e del pensiero di un secolo. E Olmi - quasi per limitarsi a testimoniare - non muove mai la m.d.p., tiene e le inquadrature e ne riduce il numero, sceglie il movimento "interno" al quadro, fosse anche quello di un volto. Solo quando vuole davvero che lo spettatore colga il sentire di Giovanni, inserisce qualche zoomata a cogliere paralleli e antitesi tra il suo volto e i soggetti dipinti sulle parenti della stanza in cui è rinchiuso.

Voto: 28/30

Andrea DE CANDIDO
17 - 08 - 01


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