Abel Ferrara, a Venezia per la presentazione di MARY, ha dichiarato che le
maggiori fonti di ispirazione per il film sono state due: LA PASSIONE DI
CRISTO di Mel Gibson e IL CODICE DA VINCI di Dan Brown. Conoscendo Ferrara e
il suo cinema, quest’affermazione può risultare quantomeno sorprendente: il
cineasta americano ha sempre avuto una spiccata predilezione per la
marginalità e la vita borderline (anche per motivazioni
autobiografiche), dunque ad una prima occhiata potrebbe sfuggire il nesso
tra la sua ultima pellicola e questi due prodotti mediali di larghissimo
successo. In realtà, Ferrara ha ammesso di avere in qualche modo
deliberatamente cavalcato l’onda mistico-religiosa nata con il film di
Gibson e il romanzo di Brown, e di averla voluta leggere a modo suo. Il che
non deve stupire: la riflessione sul rapporto dell’essere umano con la fede
è da sempre centrale nel suo cinema, e raggiunge la massima profondità in
opere come IL CATTIVO TENENTE e FRATELLI. Ma è con THE ADDICTION (forse il
suo film più riuscito, di certo il più complesso) che MARY deve
confrontarsi: il primo è un’opera inafferrabile, una sorta di trattato
filosofico che usa il vampirismo come metafora della proliferazione
infettiva del Male in un vuoto di valori che forse solo la fede può colmare;
il secondo problematizza il tema della religione in una maniera insieme
radicata e nuova per il cinema di Ferrara: è un punto d’arrivo, che lascia
da parte gli eccessi (pur necessari all’epoca) de IL CATTIVO TENENTE a
favore di una nuova maturità, caratterizzata da una maggiore fiducia nella
fede come medicina alle angosce esistenziali dell’uomo, come rimedio
ultimo per sfuggire all’horror vacui. Lo stesso concetto di “scioccante”
cambia: niente più Harvey Keitel nudo in postura da crocifisso, né
Christopher Walken che si pratica iniezioni in vena; ciò che in MARY
colpisce nel profondo è la disperazione (nel senso più proprio di
“mancanza di speranza”) che traspare in controluce dai primi piani di un
(bravissimo) Forest Whitaker incapace di trattenere le lacrime. E proprio il
primo piano - la figura linguistica che più di tutte interroga l’animo umano
– sembra farsi cifra stilistica di quest’opera, tanto quanto la figura
intera lo era de IL CATTIVO TENENTE; lo scarto è tutto qui: lo shock è un
volto (tra)sfigurato dal pianto, non più un corpo nudo che si offre
simbolicamente in sacrificio; dunque il passaggio dalla figura intera al
primo piano riflette il passaggio dal dolore dell’espiazione al
dolore del lutto, il primo proprio del Cristo, il secondo di Maria.
Dunque da Gesù Cristo a Maria, da IL CATTIVO TENENTE a MARY.
Ferrara quindi sembra porre meno domande e dare più risposte:
ma questo “atto di fede nella Fede” richiede allo spettatore di prendere
posizione, di schierarsi, in ultima analisi di crederci. Anche se i
personaggi (Ted Younger su tutti) sono lì a ricordarci che non c’è percorso
più tortuoso, né decisione più sofferta.
Voto: 28/30
04:12:2005
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