LA MALA EDUCACION

di Pedro Almodovar
Con: Gael García Bernal, Daniel Giménez Cacho, Juan Fernández

di Valeria STOPPELLI


Spesso guardati di sfuggita, ignorati, snobbati perché lunghi e fastidiosi, i titoli di testa di un film possono invece suggerire molto sul taglio della vicenda. Quelli di La mala educaciòn, nuovo attesissimo film di Pedro Almodòvar, oltre ad attirare l’attenzione per la dinamicità, il ritmo ed i colori, sembrano consigliare un’attitudine alla visione dell’intero film. La composizione in continuo divenire di frammenti di informazioni che si strappano e si sostituiscono preannuncia lo svelamento di nuove realtà sotto quelle evidenti. Il gioco visivo ci inserisce nel mondo squisitamente cinematografico dell’illusione della verità consigliandoci in sordina di mantenere uno sguardo accorto e cinico e di prepararsi a qualsiasi sconvolgimento.
La trama ruota intorno alle vite intrecciate di tre personaggi: Enrique ed Ignacio, l’infanzia insieme nell’ambiente ipocrita di un collegio cattolico degli anni ’60, la condivisione delle prime emozioni dell’innamoramento, della sessualità, del “peccato”, l’innocenza perduta; padre Manolo, enigmatico prete -insegnante di letteratura - direttore del collegio, innamorato-ossessionato da Ignacio al punto di desiderare di possederlo, di esaudire il proprio desiderio e di allontanare Enrique affinché il suo malato idillio potesse essere completo ed indisturbato. La separazione dura vent’anni, l’occasione per il ritrovo assume la forma di un progetto cinematografico sugli anni del collegio, soggetto di Ignacio (ex scrittore, aspirante attore nella parte di sé stesso versione trans), regia di Enrique. Inaspettatamente per quest’ultimo rievocare un passato lontano assumerà i contorni incerti di un viaggio nell’esistenza dell’amico al termine del quale si scoprirà essere l’unico punto fermo e l’unica certezza in una realtà trasfigurata, multifaccia, ingannevole ed immaginaria. La sua passività nel ricostruire mentalmente il puzzle Ignacio attraverso l’autobiografia e i racconti di altri si tramuta progressivamente in una forte presa di coscienza dell’entità reale di ogni personaggio implicato nella vicenda, fino al momento in cui prenderà definitivamente le redini del destino di ognuno riscrivendo ogni singola vita nel suo personale linguaggio cinematografico. Enrique è costretto a sostituire alle immagini originarie nuovi ritratti, a invertire, discernere, mutare il suo sguardo. Il ritrovato compagno Ignacio è in realtà il fratello minore Juan, sostituitosi a lui spinto probabilmente da un folle delirio artistico e dalla totalizzante ambizione di essere un attore in ogni fibra; padre Manolo da introspettivo ed idealista pervertito innamorato dell’innocenza, della grazia e delle incredibili e poetiche doti di Ignacio si rivela voglioso maniaco costantemente arrapato da un qualsivoglia corpo maschile, purché ben fatto; l’Ignacio originale, tenero, angelico, precoce fanciullo poi bellissima drag queen è in realtà un volgare trans che vive di ricatti ed eroina in uno squallido appartamento di una Valencia grigia e piovosa.
Fra realtà e immagine della realtà Enrique sceglie di stare dalla parte della rappresentazione, non per convincersi volontariamente della versione più indolore, quanto per restituire a quell’incredibile storia il degno ritratto in opera d’arte. Il suo omaggio ultimo all’amico è innanzitutto un inno alla potenza del cinema, unica forma d’arte capace di impedire ad Enrique di arrendersi alla verità dei fatti sigillando per sempre quella che per lui era la figura inimitabile di Ignacio. Per raggiungere questo scopo Enrique (che per l’occasione veste i panni di Almodòvar stesso) si avvale di tutti gli espedienti che il mezzo offre. Separa nettamente i buoni dai cattivi attraverso un uso, forse un po’ didascalico, del colore: l’universo di Ignacio è fatto di tonalità sgargianti che invadono come un uragano il luminoso bianco brillante del collegio e si stagliano idealisticamente contro l’ipocrisia e l’oppressione della veste nera di padre Manolo che non riesce ad appropriarsi della luce irradiata dagli oggetti sacri che lo circondano. Il montaggio si limita a suggerire gli avvenimenti più dolorosi senza mostrarli esplicitamente ma contrapponendoli alla pace ed alla sacralità della vita del collegio. Il primo assalto di padre Manolo ad Ignacio avviene nel più assolato dei pomeriggi, in riva al fiume sulle note di un’eterea “Moon River” interpretata dal bambino stesso. Sotto gli occhi sospettosi dello spettatore ogni gesto di ordinario ed innocente divertimento riesce ad evocare riferimenti alla sessualità malata del prete.
Nonostante inizialmente si possa cadere in inganno, La mala educaciòn non appare mai come un film di denuncia nei confronti delle ingiustizie e degli abusi grandi e piccoli celatisi per anni nei rassicuranti ambienti collegiali. Non solo perché questa tematica, assorbita dalla giostra vorticosa delle identità indefinite, risulta presto marginale, quanto perché, proprio grazie agli imprevedibili risvolti della vicenda, il film si autodefinisce come finzione totale. Il crescente clima di indeterminatezza che accompagna lo spettatore verso l’acquisizione di uno sguardo diffidente e distaccato sembra nascondere una riflessione sul fare film in senso lato. Un film può ispirarsi a fatti realmente avvenuti, ragionare su persone esistite realmente, documentare eventi tratti dal vero ma agirà sempre come un filtro, non sarà mai verità. Non solo perché è privato del tempo e di porzioni dello spazio, soprattutto perché è vittima di un punto di vista unificatore, lo sguardo del regista. Inutile, quindi, illudersi della validità documentaristica di un prodotto filmico, meglio arrendersi al destino della finzione e ricavare tutto il possibile (a livello artistico) da questa condizione obbligata. Non per altro Enrique ed assistente cercano spunti per i soggetti dei film fra le pagine di cronaca e partendo da un piccolo stimolo costruiscono vicende completamente indipendenti. Non per altro l’accenno autobiografico di Almodòvar alla vita in collegio è soltanto l’evento scatenante di tutto un mondo frutto della sua florida fantasia. Il cinema che si prende sul serio non fa onore a chi fa cinema. Ne è l’immagine il giovane Juan, completamente assorbito dal suo essere attore prima che uomo. Ma anche la sua dedizione totale nell’interpretazione del fratello, impenetrabilità, malleabilità, perfezione nel non lasciar mai trasparire quella che è la sua interiorità, precipita di fronte ad un ostacolo strutturale: il suo corpo, una condizione che non si può cambiare. Come il migliore degli attori non può mutare il proprio aspetto per essere il personaggio in tutto e per tutto, così l’obiettivo della macchina da presa separerà sempre il reale dalla finzione, seppur verosimile. Lo scorrere degli eventi assume per Juan e Enrique i contorni di un viaggio interiore in direzioni opposte: il primo, interpretando il concetto di identità come essere identico a qualcun altro, consuma la sua esistenza nella schiavitù dell’immagine che si è creato; il secondo, alla ricerca dei pezzi mancanti del proprio passato fra i resti della vita dell’amico approda invece al consolidamento della propria identità all’insegna della coerenza, della lucidità e, in un certo senso, della purezza. E’ infatti riservata ad Enrique la dichiarazione di poetica che chiude il film. Scegliere nonostante tutto di continuare a fare cinema è una decisione dettata dalla passione, non dalla ragione; è uno modo di approcciarsi al mondo ridisegnandolo a propria immagine, è un vaggio di andata e ritorno, dall’innocenza alla presa di coscienza della contradditorietà e ferocia della realtà nuda e cruda per tornare ad una creazione consapevole della versione satinata e luccicante della realtà stessa, sufficiente per assicurarsi momenti di puro piacere estetico. Non è uno sminuire l’arte cinematografica privandola di ogni valenza scientifica, è piuttosto un esaltarla in quelle che sono le sue peculiarità. Se l’inizio del film ci consigliava un pizzico di scetticismo, la fine ci ricorda con forza ciò che deve essere punto di partenza ed allo stesso tempo di arrivo del cinema: la passione, unica parola d’ordine sia per gli addetti ai lavori che per i comuni spettatori.
 

Voto: 27/30

21.10.2004


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