LA LOCANDA DELLA FELICITA’
di Zhang Yimou



Rinnovarsi, evolvere, riproporsi: sono problemi che colpiscono gli autori che hanno bruciato le tappe, i pluripremiati, coloro le cui invenzioni visive e non hanno lasciato il segno fin dal primo lungometraggio. Tarantino ne è l’esempio più limpido: non si contano saggi, monografie e tesi di laurea a lui dedicati, e dopo la saggia decisione di non bruciarsi con Jackie Brown, nonché di affidare tutte le sciocchezze che gli venivano in mente ai suoi amici, sarà presto sotto (definitivo?) esame con Kill Bill. Zhang Yimou è il corrispettivo orientale, il fabbricante di arte che le masse cinefile hanno amato e adorato, vincitore spesso reiterato di tutti i principali festival europei e per questo più noto da noi che in Cina, dove molte delle sue opere non circolano affatto a causa del sottotesto corrosivo che le sottende. Il successo europeo (e mondiale) di Zhang ha portato a un immobilismo delle pretese gran parte del suo pubblico, che si aspetta sempre un nuovo Lanterne Rosse esattamente come vorrebbe che Tarantino rifacesse sempre Pulp Fiction o Le Iene. Niente di più sbagliato: Zhang ha decisamente e coraggiosamente cambiato rotta, e l’insuccesso a suo tempo de La triade di Shanghai sembra avergli insegnato qualcosa. Della mitica tetralogia sulla condizione femminile incarnata da Gong Li, poco sembra essere rimasto: il nostro si aggira incuriosito e divertito in una Cina non più filtrata dal passato rurale, ma autentica protagonista della narrazione. Lo abbiamo visto in Keep Cool, ricco di sperimentazione sintomatica di una volontà di cambiare ad ogni costo, lo vediamo adesso con una commedia agrodolce che si sofferma sul doloroso contrasto tra una città sempre più moderna e una popolazione economicamente incapace di tenere il passo a un’identità culturale che dal comunismo vola incessante verso il consumismo, come e più di Hong Kong. La scena iniziale condensa in modo geniale questo discorso: in primo piano due personaggi che, seduti in un salotto dall’arredamento retrò, combinano un matrimonio sulla base dei soldi (e l’uomo sarà costretto a mentire per tutto il film nel nome del denaro), sullo sfondo una Pechino che più moderna non si potrebbe. Il gusto della metafora è rimasto intatto, e la tenera storia di un uomo che, aiutato da un gruppo di persone, nasconde a fin di bene la verità a una ragazzina cieca, potrebbe porgere il destro a varie chiavi di lettura sulla realtà politica e culturale cinese. Le gag sono esilaranti, e la cornice di commedia colpisce dritto al cuore perché in antitesi con lo sfondo amaro della tesi che Zhang vuole dimostrare: la giustizia della morale è implacabile, se è vero che il protagonista è costretto a pagare le sue bugie. Col piccolo difetto di voler risultare chiaro a tutti i costi: la scena della ragazzina che tocca il finto denaro è da antologia, perché fa capire oltre quel che si vede. La successiva rivelazione, per sua voce, della sua consapevolezza di fronte all’imbroglio, è quasi una ridondanza. Ma sono sottigliezze di fronte a un film riuscito, imparagonabile rispetto ai primi per natura prima che per spessore, personale perché sintomatico di un’evoluzione ancora in corso.

 



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Voto: 27/30

Gianluigi Ceccarelli
05 - 10 - 01