usa contro john lennon

di David Leaf e John Scheinfeld

Documentario

63ma mostra del cinema di venezia

di Gabriele FRANCIONI

Venezia 2006 ha proposto macro-testi americanocentrici che vanno scrupolosamente ricomposti: quello sulla natura ambigua e multiversa di Hollywood (BLACK DAHLIA, INLAND EMPIRE e anche HOLLYWOODLAND), capace di portare in scena i luoghi e i nomi che ribaltano le false verità di uno schermo molto, molto velato, e quello che tenta di accerchiare il cuore nero dell'amministrazione politica di Nixon: THE U.S. VS JOHN LENNON e BOBBY.
è necessario separare l’analisi fredda dallo sguardo caldo, il ragionamento politico dal giudizio estetico, perché ormai non è più pensabile che qualcuno discetti di faziosità del cinema dopo Michael Moore senza rendersi conto che si parla di carne, sangue e realtà scrostata di ogni epidermica caratterizzazione mediatica, ma di un complotto senza fine e di governi che ammazzano cantanti e politici non allineati con la grazia di una bomba al napalm.
Qui siamo in presenza di formati trasversali, mix sempre più libero di documentario e inserti sceneggiati, se non proprio fictionali (US vs JOHN LENNON), o di biopic anomali (BOBBY) arricchiti con innesti presi dai servizi-tv dell'epoca.
Valga per tutti la ricerca di una grammatica di base - JOHN LENNON - spesso molto ricercata, attuata tramite il ricorso calibrato e intelligente a un tipo di CGI soft, dove il materiale elaborato è composto da documenti (i dossier della CIA sul leader dei Beatles, ad esempio), carta, oggetti, magari semplicemente scontornati dal resto del quadro e spezzettati o fatti esplodere dentro l'inquadratura.
In un certo senso siamo di fronte ad una sorta di seconda generazione dell'ondata documentaristica nata all'inizio del nuovo millennio, più ricca sotto l'aspetto stilistico, ma che conferma quanto il vagheggiato Futuro degli anni Duemila sia meglio appaesato entro un recupero e una ri-rappresentazione spoglia del Passato, dove cercare le radici del Male presente, piuttosto che in una fuga verso paradisi formali esclusivamente "fantasy". Il cinema, insomma, deluso dalla mancanza di appeal futuristico della nuova era, si rivolge verso forme espressive aspre, corrosive, antimoderne.
US vs JOHN LENNON, accolto con sufficienza dai critici ultrasessantenni, incapaci di liberarsi dell'immagine infantile da loro proiettata nell'immediato dopoguerra sui colonizzatori statunitensi, mette finalmente insieme i tasselli e le trame di un quadro e di un ordito che ancora molti non hanno il coraggio di guardare con animo limpido: l'America ha sempre fatto fuori e sempre eliminerà scientificamente i nemici interni con la stessa precisione chirurgica che mette in mostra azzerando culture, nazioni, tradizioni, esseri umani esterni o contrari ad essa.
Il film, al di là dell'inaspettata sovraesposizione di Yoko Ono, che da una parte si riabilita e dall'altra fa la figura del Malcom Mc Laren della situazione ("John è una mia invenzione" etc.), è tutto nel quadro spietato di un’amministrazione politica gestita in maniera criminale, col doppio intento di radere al suolo il Viet Nam e le speranze di un'oppposizione giovanile mai così consapevole e coesa.
In mezzo: il più grande genio della musica popolare, che poco aveva in comune con la mediocrità di Paul Mc Cartney e che lasciò i Beatles, per nulla influenzato dalla compagna giapponese, con lo scopo di uscire dallo schema arido della pop-song ed entrare finalmente in contatto con la vastità del mondo reale.
David Leaf e Scheinfeld intrecciano narrazione odierna (Yoko Ono, la documentazione completa e aggiornata sulla richiesta di estradizione) e immagini strappate dal passato del genio di Liverpool, selezionando solo il periodo più politicizzato, diciamo dal '68 al '71, con piccoli à-rebours verso il '66 e salti in avanti sino al 1976, ma solo come contorno al cuore del periodo più importante.
Gli anni, non a caso, in cui vengono assassinati un po' tutti i leader carismatici cui facevano riferimento i movimenti di opposizione.
Eppure il regista resiste alla tentazione di alzare il tono della polemica, forse anche per garantire una diffusione più sicura al
proprio prodotto (Lionsgate e VH1, ovvero alta visibilità presso il pubblico giovanile) e, lentamente, si attesta sul piano di un'analisi quasi minimalista del periodo da attivista per la pace e del relativo ritiro della green card, quando la Cia voleva espellere Lennon dagli Stati Uniti.
Il baronetto coi capelli a caschetto di nero vestito è già morto da tempo e ha partorito un artista maturo, che, quasi a volersi contrapporre ad un passato pieno di cliché (il look da Beatle), esterna forme di liberazione a 360 gradi: è lui stesso il santone, il guru che altri musicisti cercavano in India (vedi John Mc Laughlin, Carlos Santana e lo stesso George Harrison), il punto di riferimento di una generazione che chiede esternazioni a mezzo stampa. Sempre giacche e pantaloni scampanati bianche, capello lungo e barba infinita.
Yoko Ono, dicono i filmeti una volta per tutte, appare a lato di John, pur avendo già un passato da artista concettuale e performer insieme a John Cage (!), e non ne ha forzato né orientato il percorso creativo, nonostante un paio di affermazioni contenute nella pellicola.
Lennon sentiva l'esigenza di espandere i propri orizzonti, al punto da concentrare arte e politica in un'unica espressione (Power To The People!) e fu automatico l'incontro, oltre che con Ono, con alcuni leader impegnati su fronti assai diversi tra loro: in particolare Bobby Seale, co-fondatore del Black Panther Party for Self-Defense, Jerry Rubin e Abbie Hoffman, entrambi membri dello Youth International Party.
A cinque anni dall'assassinio di John Kennedy, a tre da quello di Malcom X e pochi mesi dopo l'eliminazione di M.L.King e Bob Kennedy (vedi recensione di BOBBY,
N.d.R.), Lennon esce definitivamente dalla pur splendida bolla di sapone lisergica di "Lucy in the Sky with Diamonds" e "Strawberry Fields Forever", si trascina per dovere contrattuale all'interno dei Beatles ormai svuotati di contenuti - "Abbey Road" e "Let it be" - e prosegue da solista dopo il primo album virtuale a suo nome, il capolavoro "White Album", uscito in quell'epocale, messianico, rabbioso 1968.
Il grande problema (meglio: il sogno) dell'establishment e dell'industria discografica nel relazionarsi al rock è sempre stato quello di ingraziarsi un pubblico sempre più vasto, ma senza veicolare contenuti.
Lo stato di grazia, la golden age del rock'n roll venne confinata agli esordi del genere, coi Padri Fondatori Elvis "The King" Presley, Jerry Lee Lewis, Johnny Cash e Carl Perkins: ragazzi bianchi dal grande appeal, specie presso l'audience femminile, ma sostanzialmente innocui, se si esclude il diffuso richiamo sessuale e il potentissimo messaggio carcerario di Cash.
Dieci anni dopo, complice una scena inglese più radicata nel ceto operaio (gli Who e Lennon stesso), la situazione stava sfuggendo di mano ai discografici e le liriche delle canzoni avevano un impatto simile a quello della letteratura o della filosofia sulle generazioni più ricettive, sostituendosi ai libri di testo.
Dove altri erano molto espliciti (vedi i Jefferson Airplane di "White Rabbitt", 1967, anche in ONE SIDE MAKES YOU LARGER, nell'home page di Kinematrix,
N.d.R.), John Lennon, più ermetico, si trovò nell'occhio del ciclone dopo la strage di Bel Air e relativo assassinio di Sharon Tate: se Charles Manson lo citava come demoniaco ispiratore del massacro per l'"Helter Skelter" contenuta nel "White Album" e leggeva quel disco a mo' di Bibbia ribaltata in funzione dell'avvento dell'Anticristo, cosa avrebbe potuto scatenare un suo impegno politico diretto? Nell'album bianco non c'era forse anche "Revolution"?
Problema: Lennon è sempre stato un pacifista e in quel brano diceva a chiare lettere "if you want a revolution, you know you can count me out".
Il bellissimo film di Leaf e Scheinfeld è una sorta di difesa postuma contro la causa mediatica, ma non virtuale, intentata nei confronti dell'artista di Liverpool per cacciarlo dagli Stati Uniti, con la scusa del visto scaduto, dopo che la sua partecipazione al concerto contro la detenzione di John Sinclair ne aveva determinato l'immediata scarcerazione.
Il montaggio alternato del concerto (Sinclair, ex-manager degli MC 5, aveva venduto due -2!- spinelli ad agenti della narcotici sotto copertura) e delle interviste a Seale, Angela Davis, Gore Vidal, Ron Kovic, il reduce di NATO IL 4 DI LUGLIO, è emozionante e straordinariamente coinvolgente, quasi ipnotico nel modo battente di proporre materiali inediti di altissimo valore pubblico e, per chi ama Lennon, personale.
I registi incalzano, per procura, tutti i governi degli Stati Uniti contrari alla libera circolazione delle idee; è palese la messa sullo stesso piano di Nixon e Bush e, di riflesso, di Iraq e Viet Nam.
Anche la guerra iniziata nell'agosto del 1964 doveva essere un lampo di violenza, ma si trascinò fino al 1975 (!), senza tralasciare che già nel '68 erano pronti i trattati di pace (amministrazione Johnson) (vedi anche BOBBY,
N.d.R.).
 L'unica macroscopica differenza, tra ora ed allora, è l'assenza di leader del carisma di Davis o Lennon e la totale apatia giovanile, protetta ad arte dai media, pilotati in modo tale da veicolare un deprimente vuoto pneumatico d'idee, dove il rock di protesta è stato oggi soppiantato dall'autoriflessiva violenza estetizzante e gratuita dell'hip-hop e l'ascolto della musica sostituito dalla sua visione (la Mtv-generation), da cui la natura accessoria dei testi
.
Dall'assassinio di Kurt Cobain (prossimamente scriveremo riguardo alla nostra teoria del Grande Complotto contro il Rock, N.d.R.) non c'è neanche spazio per forme autolesionistiche di nichilismo esistenzialista, che intaccherebbero le coscienze di potenziali giovani soldati o, in alternativa, giovani manager d'assalto.
Per restituire al meglio il regime di coprifuoco e ritirata culturale che domina in U.S.A. occorre dire, pur con tutta la benevolenza possibile, che anche intervistando l'ottimo David Leaf o James Ellroy o semi-sconosciuti come Paul Leduc sul 9/11 e Bush (le trascrizioni sono in arrivo e verrano pubblicate a breve termine,
N.d.R.) , abbiamo colto il timore diffuso di fraintendimenti ed eccessive esposizioni del proprio pensiero, che scorre sempre più carsicamente nell'animo degli uomini di cultura senza farsi parola, macerando coscienze altrimenti ribelli e ora costrette al pendolo tra nostalgia e dignitosa sopravvivenza.
Lo stesso Oliver Stone (vedasi WTC, sempre su Kinematrix,
N.d.R.) si abbassa a lasciare spazio, nel suo ultimo film, all'ex-faccia da boyscout imbecille del petroliere texano alla Casa Bianca, ma almeno poi gli concedono i finanziamenti per capolavori come ALEXANDER (...), mentre Spike Lee - vedi WHEN THE LEVEES BROKE, N.d.R. - e lo stesso Michael Moore corrono sul filo del rasoio, consapevoli che la loro sopravvivenza fisica viene garantita dalla mancanza di un seguito di massa, dal non poter essere leader in un mondo di idioti (letteralmente: coloro che non vedono), dal non riuscire a orientare il voto degli americani.
Se fossimo nel '72, canteremmo gli inni funebri di entrambi.
THE U.S vs JOHN LENNON racconta anche come, in quell'anno e durante la campagna elettorale per la rielezione di un Nixon impegnato a rovistare negli uffici del comitato democratico (Watergate), il musicista inglese subì l'attacco più duro con il ritiro della green card.
Nel film, i quattro anni successivi passano davanti alla m.d.p. in un crescendo di ricostruzione mai sciatta: bellissimi gli zoom sui files della Cia, proposti in un'unica inquadratura di grande effetto, quasi avanzassero verso lo spettatore, fino a rivelarne il senso nascosto, prima invisibile: molte cancellature apposte su nomi e situazioni descritte, molte false verità digitate per far fuori l'ex-Beatle.
"Sometime in New York City", album uscito a ridosso dell'inchiesta, aveva convinto i servizi segreti e il presidente ad agire contro l'innocuo organizzatore di bed-in (anche questi descritti con accuratezza), sferrando un attacco di ridicola violenza, cui partecipavano tutti e ad ogni occasione.
Notevole e assai rivelatore dell'ottusità della stampa l'incontro radiofonico in cui un'inviperita intervistatrice apostrofa Lennon: "What do you think you're doing, are you going to change the world? Ain't you changed in these last years?", "Yes, now I'm 32!".
La "giornalista" si riferiva all'affermazione del '65, che aveva scatenato la reazione americana anti-Beatles, con la quale l'artista semplicemente sottolineava l'ampiezza della risposta popolare alla loro musica ("I Beatles sono più famosi di Cristo"): un botta e risposta chiarificatore delle diverse intelligenze messe in campo.
Come ha scritto Anthony De Curtis, ex rocker e fratello di sangue di Abel Ferrara, Lennon semplicemente intendeva la propria esistenza "come un'esperienza artistica in cui ciascun atto riluceva di potenziali significati per il resto del mondo.
Era un'attitudine messianica, certo, ma temperata da un'apertura e una generosità innate (...). Dal momento della sua scomparsa l'assenza di John si è fatta tristemente sentire un numero incalcolabile di volte".
Ascoltiamo le parole di De Curtis e leggiamo alcune date, per capire le ragioni dell'assassinio di L. (Mike Chapman è l'ennesimo fantoccio istruito dall'alto per uccidere): 1972, Nixon, repubblicano, inizia la persecuzione contro il leader dei Beatles; 1976, mentre il democratico Carter è dato per sicuro presidente, gli viene restituita la green card; 1980, un solo mese dopo l'elezione del repubblicano Reagan (e a seguito del dichiarato intento di tornare sulla scena), John Lennon viene eliminato per mano di un "pazzo isolato", come accadde per John Fitzgerald Kennedy con Lee Oswald.
 

Voto: 30+/30

09:09:2006

 

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 The U.S. vs. John Lennon
Regia: David Leaf e John Scheinfeld
USA 2006, 99'
DUI: 01:06:2007
Genere: Documentario