Venezia 2006 ha proposto macro-testi americanocentrici che vanno
scrupolosamente ricomposti: quello sulla natura ambigua e multiversa di
Hollywood (BLACK DAHLIA, INLAND EMPIRE e anche
HOLLYWOODLAND), capace di
portare in scena i luoghi e i nomi che ribaltano le false verità di uno
schermo molto, molto velato, e quello che tenta di accerchiare il cuore nero
dell'amministrazione politica di Nixon: THE U.S. VS JOHN LENNON e
BOBBY.
è necessario separare
l’analisi fredda dallo sguardo caldo, il ragionamento politico dal
giudizio estetico, perché ormai non è più pensabile che qualcuno
discetti di faziosità del cinema dopo Michael Moore senza rendersi
conto che si parla di carne, sangue e realtà scrostata di ogni epidermica
caratterizzazione mediatica, ma di un complotto senza fine e di governi
che ammazzano cantanti e politici non allineati con la grazia di una bomba
al napalm.
Qui siamo in presenza di formati trasversali, mix sempre più libero di
documentario e inserti sceneggiati, se non proprio fictionali (US
vs JOHN
LENNON), o di biopic anomali (BOBBY) arricchiti con innesti presi dai
servizi-tv dell'epoca.
Valga per tutti la ricerca di una grammatica di base - JOHN LENNON - spesso
molto ricercata, attuata tramite il ricorso calibrato e intelligente a un
tipo di CGI soft, dove il materiale elaborato è composto da documenti
(i dossier della CIA sul leader dei Beatles, ad esempio), carta, oggetti,
magari semplicemente scontornati dal resto del quadro e spezzettati o fatti
esplodere dentro l'inquadratura.
In un certo senso siamo di fronte ad una sorta di seconda generazione
dell'ondata documentaristica nata all'inizio del nuovo millennio, più ricca
sotto l'aspetto stilistico, ma che conferma quanto il vagheggiato Futuro
degli anni Duemila sia meglio appaesato entro un recupero e una
ri-rappresentazione spoglia del Passato, dove cercare le radici del Male
presente, piuttosto che in una fuga verso paradisi formali esclusivamente
"fantasy". Il cinema, insomma, deluso dalla mancanza di appeal
futuristico della nuova era, si rivolge verso forme espressive aspre,
corrosive, antimoderne.
US vs JOHN LENNON, accolto con sufficienza dai critici ultrasessantenni,
incapaci di liberarsi dell'immagine infantile da loro proiettata
nell'immediato dopoguerra sui colonizzatori statunitensi, mette finalmente
insieme i tasselli e le trame di un quadro e di un ordito che ancora molti
non hanno il coraggio di guardare con animo limpido: l'America ha sempre
fatto fuori e sempre eliminerà scientificamente i nemici interni con la
stessa precisione chirurgica che mette in mostra azzerando culture, nazioni,
tradizioni, esseri umani esterni o contrari ad essa.
Il film, al di là dell'inaspettata sovraesposizione di Yoko Ono, che da una
parte si riabilita e dall'altra fa la figura del Malcom Mc Laren della
situazione ("John è una mia invenzione" etc.), è tutto nel quadro spietato
di un’amministrazione politica gestita in maniera criminale, col doppio
intento di radere al suolo il Viet Nam e le speranze di un'oppposizione
giovanile mai così consapevole e coesa.
In mezzo: il più grande genio della musica popolare, che poco aveva in
comune con la mediocrità di Paul Mc Cartney e che lasciò i Beatles, per
nulla influenzato dalla compagna giapponese, con lo scopo di uscire dallo
schema arido della pop-song ed entrare finalmente in contatto con la vastità
del mondo reale.
David Leaf e Scheinfeld intrecciano narrazione odierna (Yoko Ono, la
documentazione completa e aggiornata sulla richiesta di estradizione) e
immagini strappate dal passato del genio di Liverpool, selezionando solo il
periodo più politicizzato, diciamo dal '68 al '71, con piccoli
à-rebours verso il '66 e salti in avanti sino al 1976, ma solo come contorno
al cuore del periodo più importante.
Gli anni, non a caso, in cui vengono assassinati un po' tutti i leader
carismatici cui facevano riferimento i movimenti di opposizione.
Eppure il regista resiste alla tentazione di alzare il tono della polemica,
forse anche per garantire una diffusione più sicura al
proprio prodotto (Lionsgate e VH1, ovvero alta visibilità presso il pubblico
giovanile) e, lentamente, si attesta sul piano di un'analisi quasi
minimalista del periodo da attivista per la pace e del relativo ritiro della
green card, quando la Cia voleva espellere Lennon dagli Stati Uniti.
Il baronetto coi capelli a caschetto di nero vestito è già morto da tempo e
ha partorito un artista maturo, che, quasi a volersi contrapporre ad un
passato pieno di cliché (il look da Beatle), esterna forme di liberazione a
360 gradi: è lui stesso il santone, il guru che altri musicisti cercavano in
India (vedi John Mc Laughlin, Carlos Santana e lo stesso George Harrison),
il punto di riferimento di una generazione che chiede esternazioni a mezzo
stampa. Sempre giacche e pantaloni scampanati bianche, capello lungo e barba
infinita.
Yoko Ono, dicono i filmeti una volta per tutte, appare a lato di
John, pur avendo già un passato da artista concettuale e performer insieme a
John Cage (!), e non ne ha forzato né orientato il percorso creativo,
nonostante un paio di affermazioni contenute nella pellicola.
Lennon sentiva l'esigenza di espandere i propri orizzonti, al punto da
concentrare arte e politica in un'unica espressione (Power To The
People!) e fu automatico l'incontro, oltre che con Ono, con alcuni
leader impegnati su fronti assai diversi tra loro: in particolare Bobby
Seale, co-fondatore del Black Panther Party for Self-Defense, Jerry Rubin e
Abbie Hoffman, entrambi membri dello Youth International Party.
A cinque anni dall'assassinio di John Kennedy, a tre da quello di Malcom X e
pochi mesi dopo l'eliminazione di M.L.King e Bob Kennedy (vedi recensione di
BOBBY, N.d.R.),
Lennon esce definitivamente dalla pur splendida bolla di sapone lisergica di
"Lucy in the Sky with Diamonds" e "Strawberry Fields Forever", si trascina
per dovere contrattuale all'interno dei Beatles ormai svuotati di contenuti
- "Abbey Road" e "Let it be" - e prosegue da solista dopo il primo album
virtuale a suo nome, il capolavoro "White Album", uscito in quell'epocale,
messianico, rabbioso 1968.
Il grande problema (meglio: il sogno) dell'establishment e dell'industria
discografica nel relazionarsi al rock è sempre stato quello di ingraziarsi
un pubblico sempre più vasto, ma senza veicolare contenuti.
Lo stato di grazia, la golden age del rock'n roll venne confinata agli
esordi del genere, coi Padri Fondatori Elvis "The King" Presley, Jerry Lee
Lewis, Johnny Cash e Carl Perkins: ragazzi bianchi dal grande appeal, specie
presso l'audience femminile, ma sostanzialmente innocui, se si esclude il
diffuso richiamo sessuale e il potentissimo messaggio carcerario di
Cash.
Dieci anni dopo, complice una scena inglese più radicata nel ceto operaio
(gli Who e Lennon stesso), la situazione stava sfuggendo di mano ai
discografici e le liriche delle canzoni avevano un impatto simile a
quello della letteratura o della filosofia sulle generazioni più ricettive,
sostituendosi ai libri di testo.
Dove altri erano molto espliciti (vedi i Jefferson Airplane di "White
Rabbitt", 1967, anche in ONE SIDE MAKES YOU LARGER, nell'home page di
Kinematrix, N.d.R.),
John Lennon, più ermetico, si trovò nell'occhio del ciclone dopo la strage
di Bel Air e relativo assassinio di Sharon Tate: se Charles Manson lo citava
come demoniaco ispiratore del massacro per l'"Helter Skelter" contenuta nel
"White Album" e leggeva quel disco a mo' di Bibbia ribaltata in funzione
dell'avvento dell'Anticristo, cosa avrebbe potuto scatenare un suo impegno
politico diretto? Nell'album bianco non c'era forse anche
"Revolution"?
Problema: Lennon è sempre stato un pacifista e in quel brano diceva a
chiare lettere "if you want a revolution, you know you can count me out".
Il bellissimo film di Leaf e Scheinfeld è una sorta di difesa postuma contro
la causa mediatica, ma non virtuale, intentata nei confronti
dell'artista di Liverpool per cacciarlo dagli Stati Uniti, con la scusa del
visto scaduto, dopo che la sua partecipazione al concerto contro la
detenzione di John Sinclair ne aveva determinato l'immediata scarcerazione.
Il montaggio alternato del concerto (Sinclair, ex-manager degli MC 5, aveva
venduto due -2!- spinelli ad agenti della narcotici sotto copertura) e delle
interviste a Seale, Angela Davis, Gore Vidal, Ron Kovic, il reduce di NATO
IL 4 DI LUGLIO, è emozionante e straordinariamente coinvolgente, quasi
ipnotico nel modo battente di proporre materiali inediti di altissimo
valore pubblico e, per chi ama Lennon, personale.
I registi incalzano, per procura, tutti i governi degli Stati Uniti contrari
alla libera circolazione delle idee; è palese la messa sullo stesso piano di
Nixon e Bush e, di riflesso, di Iraq e Viet Nam.
Anche la guerra iniziata nell'agosto del 1964 doveva essere un lampo di
violenza, ma si trascinò fino al 1975 (!), senza tralasciare che già nel '68
erano pronti i trattati di pace (amministrazione Johnson) (vedi anche
BOBBY, N.d.R.).
L'unica macroscopica differenza, tra ora ed allora, è l'assenza di leader
del carisma di Davis o Lennon e la totale apatia giovanile, protetta ad arte
dai media, pilotati in modo tale da veicolare un deprimente vuoto pneumatico
d'idee, dove il rock di protesta è stato oggi soppiantato
dall'autoriflessiva violenza estetizzante e gratuita dell'hip-hop e
l'ascolto della musica sostituito dalla sua visione (la Mtv-generation), da
cui la natura accessoria dei testi .
Dall'assassinio di Kurt Cobain (prossimamente scriveremo riguardo alla
nostra teoria del Grande Complotto contro il Rock, N.d.R.) non c'è neanche
spazio per forme autolesionistiche di nichilismo esistenzialista, che
intaccherebbero le coscienze di potenziali giovani soldati o, in
alternativa, giovani manager d'assalto.
Per restituire al meglio il regime di coprifuoco e ritirata culturale che
domina in U.S.A. occorre dire, pur con tutta la benevolenza possibile, che
anche intervistando l'ottimo David Leaf o James Ellroy o semi-sconosciuti
come Paul Leduc sul 9/11 e Bush (le trascrizioni sono in arrivo e verrano
pubblicate a breve termine, N.d.R.)
, abbiamo colto il timore diffuso di fraintendimenti ed eccessive
esposizioni del proprio pensiero, che scorre sempre più carsicamente
nell'animo degli uomini di cultura senza farsi
parola, macerando coscienze altrimenti ribelli e ora costrette al
pendolo tra nostalgia e dignitosa sopravvivenza.
Lo stesso Oliver Stone (vedasi
WTC, sempre su Kinematrix, N.d.R.)
si abbassa a lasciare spazio, nel suo ultimo film, all'ex-faccia da boyscout
imbecille del petroliere texano alla Casa Bianca, ma almeno poi gli
concedono i finanziamenti per capolavori come ALEXANDER (...), mentre Spike
Lee - vedi
WHEN THE LEVEES BROKE,
N.d.R. - e lo stesso Michael Moore corrono
sul filo del rasoio, consapevoli che la loro sopravvivenza fisica viene
garantita dalla mancanza di un seguito di massa, dal non poter essere leader
in un mondo di idioti (letteralmente: coloro che non vedono),
dal non riuscire a orientare il voto degli americani.
Se fossimo nel '72, canteremmo gli inni funebri di entrambi.
THE U.S vs JOHN LENNON
racconta anche come, in quell'anno e durante la campagna elettorale per la
rielezione di un Nixon impegnato a rovistare negli uffici del comitato
democratico (Watergate), il musicista inglese subì l'attacco più duro con il
ritiro della green card.
Nel film, i quattro anni successivi passano davanti alla m.d.p. in un
crescendo di ricostruzione mai sciatta: bellissimi gli zoom sui files
della Cia, proposti in un'unica inquadratura di grande effetto, quasi
avanzassero verso lo spettatore, fino a rivelarne il senso nascosto, prima
invisibile: molte cancellature apposte su nomi e situazioni descritte, molte
false verità digitate per far fuori l'ex-Beatle.
"Sometime in New York City", album uscito a ridosso dell'inchiesta, aveva
convinto i servizi segreti e il presidente ad agire contro l'innocuo
organizzatore di bed-in (anche questi descritti con accuratezza),
sferrando un attacco di ridicola violenza, cui partecipavano tutti e ad ogni
occasione.
Notevole e assai rivelatore dell'ottusità della stampa l'incontro
radiofonico in cui un'inviperita intervistatrice apostrofa Lennon: "What do
you think you're doing, are you going to change the world? Ain't you changed
in these last years?", "Yes, now I'm 32!".
La "giornalista" si riferiva all'affermazione del '65, che aveva scatenato
la reazione americana anti-Beatles, con la quale l'artista semplicemente
sottolineava l'ampiezza della risposta popolare alla loro musica ("I Beatles
sono più famosi di Cristo"): un botta e risposta chiarificatore delle
diverse intelligenze messe in campo.
Come ha scritto Anthony De Curtis, ex rocker e fratello di sangue di Abel
Ferrara, Lennon semplicemente intendeva la propria esistenza "come
un'esperienza artistica in cui ciascun atto riluceva di potenziali
significati per il resto del mondo.
Era un'attitudine messianica, certo, ma temperata da un'apertura e una
generosità innate (...). Dal momento della sua scomparsa l'assenza di John
si è fatta tristemente sentire un numero incalcolabile di volte".
Ascoltiamo le parole di De Curtis e leggiamo alcune date, per capire le
ragioni dell'assassinio di L. (Mike Chapman è l'ennesimo fantoccio istruito
dall'alto per uccidere): 1972, Nixon, repubblicano, inizia la
persecuzione contro il leader dei Beatles; 1976, mentre il
democratico Carter è dato per sicuro presidente, gli viene restituita la
green card; 1980, un solo mese dopo l'elezione del repubblicano
Reagan (e a seguito del dichiarato intento di tornare sulla scena), John
Lennon viene eliminato per mano di un "pazzo isolato", come accadde per John
Fitzgerald Kennedy con Lee Oswald.
Voto: 30+/30
09:09:2006
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