LAUREL CANYON

di Lisa Cholodenko
Con: Frances McDormand, Kate Beckinsale

di Gabriele FRANCIONI


Per chi è stato almeno una volta a Venice Beach, discarica a cielo aperto dell’american dream e requiem “concreto” per una generazione di perdenti, risulterà chiaro come per l’ America di oggi sia necessario, quasi fisiologico riaffermare la netta distinzione tra questi e le categorie umane uscite vincenti dagli anni ’70 e dal successivo decennio. I cosiddetti losers descrivono involontariamente una geografia di souvenirs animati ai bordi delle strade, abbandonati sul sea-front a ripetere all’infinito il rosario della beat generation in forma di canzone (White Rabbit, I feel like I’m fixin’ to die, Masters of War, Almost cut my hair ) o, in un’autodeclinazione “indebolita” di quel pensiero, a intonare inni surf alla bellezza della California pre-reaganiana e pre-mansoniana (Caroline No, Surfin’ Usa, Barbara Ann ).
Sulle strisce in cemento costruite per gli skate-rollers, da Santa Monica a Venice, corrono invece versioni aggiornate di yuppies con ventiquattrore, cinquantenni addobbate a mo’ di collegiali e altri personaggi dal piglio siliconato. La contrapposizione è netta, persino ridicola per chi la osservi con occhio europeo e giustificata supponenza. Eppure, all’interno di un’ottica w.a.s.p. intimamente razzista, tutto ciò ha un senso e trova conferma nella definizione di una topografia dei tipi umani o sociali ancora più estesa, in base alla quale la città di Los Angeles Non Nera è suddivisa in enclaves.
Bel Air è la zona collinare della ricchezza cross-over. Beverly Hills l’insediamento dei movies di ogni epoca. Laurel Canyon la riserva indiana della music people. Neil Young cantava in Revolution Blues: “Well I hear that Laurel Canyon is full of famous stars, but I hate them worse than lepers and I’ll kill them in their cars…”, sottolineando la propria orgogliosa diversità di canadese refrattario a “globalizzazioni” di qualsivoglia tipo. Anche lui, in qualche modo, europeo.

Il film della Cholodenko (High art, 1998) eredita quell'impostazione manichea, appiattendosi in contrapposizioni ancor più rigide tra i personaggi e, peggio ancora, evita di prendere posizione in alcun modo. La produttrice di musica rock, che duplica se stessa nel microcosmo sciattamente connotato della ristretta cerchia di adepti e collaboratori, impegnati nella lavorazione del disco di una band simil-Coldplay, subisce l'entrata in scena di un elemento esogeno (che tale non dovrebbe essere) quasi si trattasse di una minaccia alla propria specie.
Suo figlio, yuppie ospedaliero con sposa promessa al seguito, subisce anch'egli l'impatto col branco ostile e, calato nell'universo a lui noto fatto di promiscuità e buone vibrazioni, si chiude a riccio di fronte al rinnovato cattivo esempio materno, offrendo in sua vece la fidanzata a mo' di sacrificio necessario a stabilire, perlomeno, una non gradita comunicazione con l'altro. L'enclave dei perdenti ma ricchi, tra goffe connotazioni da trattato di sociologia spicciola (il cantante trentenne legato alla produttrice ultraquarantenne, non vede al di là del proprio sesso e teorizza e pratica lo sballo allargato, virato nei toni sbiaditi e light tipici del nostro millennio, trascinandosi tra all tomorrow's parties e canne) e miserrima assenza d'indagine psicologica, finisce coll'apparire come una mesta confraternita del brandy, rispetto alla quale pare ardito spingersi oltre la commiserazione.
Speculare a ciò, il mondo di coloro che hanno vinto la battaglia col reale ( medici in carriera, peraltro contrapposti anche sul posto di lavoro ad altre categorie di stereotipate vittime del mondo, quali afroamericani violenti e portatori di schizofrenie varie ) non appare migliore né degno di attenzione.
La regista non si preoccupa di dare un'anima a personaggi svuotati di tutto, costringendo gli attori ad affidarsi ad eventuali riletture di esperienze personali per dare un minimo di "corpo" a tali esili characters. L'operazione riesce meglio a Frances Mc Dormand, piuttosto che a Nivola/Chris Martin e, men che meno, a Beckinsale & Bale. Sospettiamo che la Cholodenko abbia scelto alcuni di loro esclusivamente sulla base di precedenti analoghe prove in film d'argomento musicale: Velvet Goldmine per il Bateman di American Psycho e Almost Famous per la Mc Dormand.
Lo spettatore si ritrova chiuso, fin dalle prime battute, in una sorta di propria enclave mentale, dalla quale non vorrebbe mai uscire per mescolarsi con i protagonisti della storia, all'opposto di quanto accadeva, ad esempio, in The big Lebowski dei Coen e, diversamente, in Boogie Nights, entrambe pellicole vagamente riferibili ad alcuni dei temi qui presi in considerazione.
A margine, occorre sottolineare la mancata documentazione della regista riguardo ad esempi reali di conflitti familiari in analoghi contesti, ai quali avrebbe potuto comodamente fare riferimento: la Courtney Love Vedova Nera del Grunge, figlia di manager musicale, o Melissa Auf Der Maur, madre giornalista e Dj, non sembrano essere esattamente cresciute secondo le modalità attribuite al personaggio di Christian Bale.
Analoga impertinente superficialità, specchio di un' assoluta anaffettività verso la materia trattata, guida la scelta del disordinato repertorio di brani scelti per la colonna sonora. Gli Steely Dan del 1978 (Do it again) entrano in collisione con i melensi post-Roxy Music del 1982 (More than this) e il tutto stride ancor di più se lo si accosta ai Mercury Rev e PJ Harvey!
In tutto questo confuso marasma frutto d'imperizia e scarsa attenzione filologica, si isola, per la propria inarrivabile bellezza, la Bonnie and Clyde di Serge Gainsborough e Brigitte Bardot, peraltro decontestualizzata e, come il resto, sprecata.
 

Voto: 17/30

19.03.2004

 


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