J. EDGAR

di Clint Eastwood
con Leonardo DiCaprio, Naomi Watts

e con  Judi Dench, Josh Lucas

di Marco GROSOLI

 

30/30

 

John Edgar Hoover è l'uomo che ha inventato l'America del Novecento. Volendo essere, dovendo essere e infine essendo una nazione fondata sull'Individuo, J. Edgar ha fatto sì che la nazione stessa replicasse la struttura psichica del soggetto individuale. Da una parte c'è l'Io, ovvero la Legge, con il suo funzionamento e i suoi organi che gioiosamente interagiscono alla luce del sole. Dall'altra c'è il Super Io, il supplemento osceno della Legge, quello la sostiene grazie alla trasgressione regolata, all'indugio nel torbido, al tenere a bada l'Es grazie a un subdolo sistema di "valvole" che si aprono e si chiudono. E il Super Io, è l'FBI, l'organizzazione semisegreta che fa da oscuro sostegno della Legge. Da una parte c'è il chiarore del Pubblico, dall'altra le legittime sozzure del Privato.

Ora, questo sistema non funziona più. Il postmoderno (o comunque lo si voglia chiamare – nel film, comunque, questa soglia corrisponde all'avvento di Nixon) ha fatto collassare una metà sull'altra: ora lo Stato è anche polizia segreta, e viceversa. L'11/9, Bush e l'infame decennio in cui l'Occidente ha creduto di coprire le crepe del proprio già da tempo inagibile tempio finanziario inventando un nemico che non c'è mai stato, non sono che la punta più estrema di questa decomposizione. La domanda che si fa Eastwood, allora, è questa: visto che questo a suo modo geniale (per quanto diabolico) sistema a due teste non funziona più, che cosa dobbiamo portarci dietro dopo il suo crollo (che fra l'altro rischia di travolgerci tutti)?

La risposta è, fondamentalmente, un gioco di parole sui due principali significati possibili della parola privato. La macchina dei segreti di Hoover serviva a tenere ben distinti Pubblico e Privato affinché si reggessero reciprocamente. Il problema è che gli sforzi immani fatti da Hoover per tracciare questo solco tra i due ambiti lo porta precisamente a privarsi del privato. Il difensore del Privato, ovvero il tesoro stesso e il cuore pulsante della civiltà americana, un privato suo, non ce l'ha. L'amico/amante Tolson è precisamente l'alibi che lui stesso si crea per tenere viva l'illusione di avere una dimensione privata. Tolson è quella "persona vera" che Hoover sarebbe se solo esistesse, ovvero se fosse qualcosa di più di un "qualcosa" che cerca eternamente di formare la propria immagine davanti allo specchio. Tolson è lui stesso allo specchio, ma senza specchio. È per questo che i due si amano - ed è per questo che il loro rapporto è, in ogni senso, inconsumabile. Il tempo non lo consuma, ma nemmeno si può "consumare" nel senso "biblico". Non si può far l'amore con un'ombra. Lo spettatore che vuole entrare nel privato di Hoover, trova solo un'ombra, esattamente come Hoover, nella scena più straordinaria del film, ascoltando i nastri che documentano un incontro amoroso, non "vede" i due che fanno sesso, ma ne vede solo le ombre sul muro.

Tuttalpiù, allo spettatore è dato di vedere non un "segreto" radicalmente evanescente, ma un magnifico attore (Di Caprio) impegnato ad essere (esattamente come J. E. Hoover) un nonnulla che sforza e tende ogni muscolo del proprio corpo (e mobilita ognuna delle proprie corde vocali) per arrivare a formare una Immagine Nello Specchio - quella che non potrà mai formarsi davvero: è tutto qui il ricatto castrante e invalicabile che la madre di Hoover tende al figlio, avvinghiandolo a sé anche dopo morta, rendendo lui (come il film sottolinea in due inequivocabili citazioni a breve distanza) un Norman Bates. Ovvero colui che cinquant'anni fa ci ricordò che ogni soggetto, in quanto tale, è psicotico. E lo stesso non può dunque non valere per una società che sul soggetto individuale ha scelto di fondarsi.

Perché il gesto "fondativo", la "castrazione" che crea la società bandendo i "comunisti", non ha mai fine. La si deve ripetere incessantemente, perché non ha mai luogo. Questo impara sulla propria pelle J. Edgar; per questo Eastwood riempie il suo film di passaggi in cui la "cucitura" tra passato e presente è esposta e rimarcata con chiarezza (il raccordo tra Hoover e Tolson spettatori all'ippodromo negli anni Trenta e oggi, eccetera). Perché il passato non passa mai: il "taglio" mitologico che si dovrebbe operare per distinguerli può essere solo illusorio.

Eccola, la risposta che Eastwood dà alla domanda posta in apertura. Ciò che dobbiamo portarci dietro dopo il crollo (già ben più che in atto) di una civiltà è che il soggetto (ovvero ciò che ne stava alla base) è un'ombra. Una pesantissima ombra. Quello che si rischia di perdere col crollo della civiltà (il "soggetto") non l'abbiamo mai avuto. Un'illusione che abbiamo tutti creduto vera, e che oggi (e domani), lungi dal cinismo bushiano/nixoniano che la vorrebbe semplicemente "falsa", ci chiama a gestire il peso della sua inconsistenza. È quel peso paradossale che le strepitose luci di Tom Stern assumono nel fare affondare la realtà per metà nella materia, e per metà nella sua ombra. Il potente respiro della regia sui Personaggi li avvolge come se esistessero. Indugia su di loro con la stessa tenacia di uno scultore non per rivelarli, ma per sussurrarci quanto sarebbe bello se solo ci fossero. Questo ci dice la struggente parabola di Hoover e Tolson: il sesso, primo e ultimo balocco del soggetto, non esiste; ma questo non esistere, a propria volta, esiste, e si chiama amore.

 

Poi, certo, ci sono gli imbecilli che credono di andare a vedere una puntata di Report.

 

15:01:2012

Regia Clint Eastwood

Stati Uniti 2011, 137'
Warner Bros

DUI: 04/01/2012

Biografico, Drammatico