L'IMBALSAMATORE
di Matteo Garrone
con Ernesto Mathieux
Valerio Foglia Manzillo
Elisabetta Rocchetti

Un film che si apre con una soggettiva di "una specie di avvoltoio" non potrebbe portare come sottotitolo "Il meraviglioso mondo di Peppino", ma nessuno si aspetta che le viscere rimosse dal tassidermista siano quelle dello spettatore. La storia racconta la passione totale e imprescindibile di Peppino l'imbalsamatore (Ernesto Mahieux) per Valerio (Valerio Foglia Manzillo), un bellissimo ragazzo che incontra un giorno per caso e che diventerà suo aiutante; colei che porterà complicazioni e tensioni si chiama Deborah (Elisabetta Rocchetti) ed entra in scena come un ciclone a sconvolgere il complesso equilibrio in cui vivevano i due uomini evidentemente diversi fra di loro. Inquadrature molto ampie, panoramiche sconfinate che svelano la bruttezza della periferia e non paesaggi da cartolina, lunghe strade male illuminate e alti edifici tutti uguali sono la cornice entro cui Valerio, l'oggetto del desiderio di Deborah e Peppino, non sceglierà mai con chi stare, facendosi dominare dagli eventi, ma, di fatto, restando sempre indeciso fra una storia lineare e comune con una ragazza incontrata in un'officina e l'inquietante legame con Peppino, seducente e lusinghiero. Lo scontro aperto tra i due pretendenti, entrambi molto agguerriti, avviene su un campo da golf e dà luogo a un dialogo indimenticabile, in cui la passione assume dimensioni epiche portando colui che la sostiene, in piedi poco più alto della donna seduta per terra, a vette inarrivabili. La ferma certezza della volontà, l'indistruttibile ossatura del desiderio, la ferrea univocità del possesso e la straziante consapevolezza messa a tacere della possibilità, affatto remota, di perdere, fanno di Peppino un personaggio tragico disegnato con maestria e misura. Ciò che si delinea fin dall'inizio e che mai viene mostrato nel corso del film, ci viene ricordato dalle viscere, le nostre interiora ci parlano e noi non possiamo fare altro che sottoporle alla visione, ci chiedono di smettere, ma noi non possiamo. Le viscere degli animali da imbalsamare invece, non si vedono mai, solo fili di ferro e strutture fatte a mano in un'operazione di intellettualizzazione e ri-creazione degli esseri viventi (morti che viventi sono stati, a dir la verità), come a farci vedere la struttura del corpo, quella perfetta che tale deve rimanere, non quella reale e soggetta a deterioramento; nell'antico Egitto il primo organo ad essere espiantato ai morti era il cervello, da loro considerato inutile, mentre il cuore restava nel corpo, sede della vita emotiva e intellettuale. Così Garrone mostra quanto poco amorevole sia la volontà di mantenere al di fuori del tempo e nell'impossibilità di interagire gli esseri che diciamo di amare e ci porta alle estreme conseguenze di questa tesi, in un viaggio che inizia all'interno di un grosso toro e termina all'interno di una grossa auto, senza che la tensione cali mai. Dalla soggettiva di un animale che si nutre di cadaveri, all'adesione al modo di vedere di un uomo che vive imbalsamandoli, con momenti di vita "standard" che ci paiono intollerabili, come se creare una famiglia equivalesse a smantellare i propri desideri (rimuovere le interiora) e fermare il corso del tempo facendone l'uso sbagliato; dai palazzi costruiti in serie alla nebbia del nord in un'alternanza continua di fatti occultati e trofei messi in mostra, il regista con un tocco comunque leggero, costruisce storia e personaggi donando loro spessore. E viscere.

15/10/2002