IL SERVO UNGHERESE
di Massimo Piesco e Giorgio Molteni
Con: Tomas Arana, Chiara Con
ti

E con: Andrea Renzi, Edoardo Sala

di Emilio RANZATO


Verso la fine della seconda guerra mondiale, August (Arana), un maggiore delle SS, si trasferisce con la frivola moglie Franziska (Conti) presso un campo di sterminio con il compito di condurlo a fianco dello spietato Tenente Tross (Sala). L’arrivo di un servo ungherese particolarmente istruito e amante dell’arte, non solo dischiuderà uno spiraglio di speranza a quei deportati che verranno assunti all’interno della casa come musicisti e ritrattisti della bella ed egocentrica Franziska, ma insinuerà il germe del dubbio nella mente dei due devoti sudditi di Hitler.
Anche se i registi sostengono di non averlo mai visto, questo loro film – opera prima per Piesco, autore anche della sceneggiatura – nei suoi momenti più assorti e contemplativi da dramma da camera ricorda il bellissimo MOLOCH del russo Aleksandr Sokurov, racconto d’una banale giornata di villeggiatura del Führer in cui si respira una storia remota ma inquietante, e il senso della tragedia filtra attraverso dialoghi idioti e deliranti e azioni quotidiane persino misere. Ma se lì uno sguardo febbrile e una fotografia avvolgente creavano un’opera puramente cinematografica che non aveva bisogno di troppi dialoghi ed eccessivi sviluppi narrativi, qui una sceneggiatura invadente delinea figure e snodi piuttosto rigidi a cui avrebbe di certo giovato la dimensione maggiormente metaforica della rappresentazione teatrale; una miglior predisposizione alla stilizzazione che avrebbe attutito quelli che nell’immediatezza dell’immagine non possiamo non percepire come schematismi. Allora forse non è un caso se il personaggio meno riuscito finisce per essere proprio quel servo che Renzi interpreta con l’enfasi tipica del palcoscenico: saccente più che colto, severo più che appassionato, il personaggio paga l’eccessiva contrapposizione che sulla carta si è voluto creare fra la sua nobiltà d’animo e l’ignoranza dei beceri nazisti, e così si aliena quell’istintiva empatia di cui invece necessitava, e che il pubblico da grande schermo utilizza spesso come chiave per entrare nel vivo di una storia.
Ma combattendo strenuamente con le armi proprie del teatro, la strana coppia Piesco-Molteni finisce per vincere anche alcune importanti battaglie. In tutti i momenti in cui marito e moglie rimangono soli al centro di stanze tanto inospitali quanto astratte, l’incantesimo brechtiano di raggiungere la verità attraverso l’artificio si realizza con disinvoltura, anche perché Arana e Conti (quest’ultima in un’altra buona prova dopo L’ORA DI RELIGIONE) colgono la giusta misura fra realtà e simbolo. Allora attraverso i loro dialoghi stanchi, e i silenzi eloquenti, arriva la brezza di ciò che sta accadendo tutto attorno, un sentore delicato ma ammaliante di quel sonno della ragione di cui l’Europa del tempo era schiava. Su questi due bei personaggi avviati all’autodistruzione sembra concentrarsi maggiormente l’ispirazione dello sceneggiatore, che finisce per affezionarsi alla decadenza del loro mondo e arriva ad insinuare – coraggiosamente – nello spettatore un moto di compassione nei confronti di due anime perdute nei gorghi della storia, vittime a modo loro di un orrore che gli ha inquinato l’anima, mentre la pietà per i deportati rimane sullo sfondo.
Gli autori sostengono di aver optato per la forma cinematografica anche perché “in Italia paradossalmente è più facile fare un film che una rappresentazione in teatro”. Una motivazione tanto semplice quanto legittima, che fa perdonare alcuni arrangiamenti stilistici un po’ forzati.
 

Voto: 19/30

13.05.2004

 


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