il cigno nero
di Darren Aronofsky
con Natalie Portman, Vincent Cassel
Altri interpreti: Barbara Hershey, Winona Ryder

di Gabriele FRANCIONI

 

23/30

 

DOPPELGANGERS CAST NO SHADOW

 

ALL ABOUT EVE che entra in THE RED SHOES aggiungendovi il tema del doppio depalmiano di FEMME FATALE, portando il tutto in territori da cheap horror dai contorni molto genericamente sovrannaturali.

 

La traiettoria stilistica tracciata dal cinema di Darren Aronofsky sembra attraversare, con BLACK SWAN, territori devolutivi che, accogliendone barthesianamente la recente latenza in quanto autore, si apprestano invece ad essere abitati da una straordinaria messe di materiali, prestiti e rimandi che, di fatto, lo sostituiscono.

Quando Nina/Portman verifica de factu la propria deriva metamorfica e la pellicola convoca, oltre a mille altri (CAT PEOPLE?), anche un celebre testo cronenberghiano, Aronofsky stesso cessa di esistere nell' atto di consegnarsi al flusso inarrestabile di una costruzione discorsiva autosufficiente.

BLACK SWAN, noir horror sovrannaturale, stipula con lo spettatore un contratto faustiano di assoluto compromesso: l' irrintracciabilità dell' Autore in cambio di una caleidoscopica autoriflessività dei generi e dei film che contiene.

Solo Tarantino, nell' arena del rimando infinito, riesce a riconvertire il magma testuale in una cristalizzata oggettualità.

Ogni suo film è una scultura di segni immediatamente riconoscibile.

Dopo averli lasciati razzolare per un paio d'ore, richiama a sè i quanti di citazione e li dispone entro strutturatissime griglie.

D.A., che non possiede freddezza da scacchista, se impegnato per interposta persona in un match col proprio inconscio, come nel caso di BLACK SWAN, opta per un azzardato lancio di dadi e perde.

Se poi l' inconscio in questione è il cinema stesso, finisci come Nina, assediato dai doppelganger, giorno e notte.

THE WRESTLER e BLACK SWAN sono a tutti gli effetti opera del doppelganger di Aronofsky.

La sfida della ballerina che sceglie l' arte al posto della vita ("What would you choose between life and..." "...dance!", rispondeva Vicky Page al luciferino Lermontov in THE RED SHOES) è anche la sfida del regista e il suo personalissimo trauma è, naturalmente, il fallimento di THE FOUNTAIN.

Varcata la soglia del successo, però, vendiamo tutti l' anima al diavolo e desideriamo solo rimanere eternamente sul frontescena.

Esistiamo solo in quanto performers, come Randy 'The Ram' Robinson, come Nina, come Vicky Page/Moira Shearer, come Eve/Anne Baxter.

Esistiamo solo in funzione dell' inebriante sweet smell of success.

 

Il film, comunque, affascina, perché fa dello spettatore il Luogo soddisfatto, ma non consapevole, in cui la molteplicità di scrittura si riunisce in una festa continua del Logos, ma fallisce nel tentativo di essere quello che vorrebbe -il doppio remake di ALL ABOUT EVE e THE RED SHOES- in quanto accetta le alte temperature di un approccio freudiano al tema dello sdoppiamento, che in quelli viene sviluppato con maggiore controllo.

Dotata o meno di attributi di realtà, infatti, Lilly  -eco della Lily/Laure depalmiana- è un concerto di sessualità e/o affettività in grado di accontentare ortodossi e meno ortodossi della materia psicanalitica.

Servirebbe, invece, lasciare decantare il tutto nel liquido lacaniano di verità psicologiche parlate matematicamente o, perlomeno, aiutare il film con mente raffreddata.

La scena onirico-orrorifica di Nina nella vasca da bagno, ad esempio, è pura tautologia del sogno come desiderio appagato in Freud. Troppo poco, troppo datato.

La lunga sezione seduttiva in una discoteca drogata, ma non trasfigurata come ci sarebbe aspettati dall’ autore di REQUIEM FOR A DREAM, è la chiusura del cerchio di una duplicazione che non cresce col film e non ha sviluppo, montando solo nella disperata espressività tesa del volto di Portman.

 

La seduzione saffica, inoltre, trattata senza particolari invenzioni nonostante un chiaroscurale Libatique alla fotografia, sembra essere funzionale al compiersi dello sdoppiamento, generato quindi dall' esterno, mentre altrove (FEMME FATALE, MULLHOLLAND DRIVE) è giustamente posta dopo il traum/a iniziale, risultandone effetto e non causa.

L' equazione doppio femminino uguale lesbismo, tra l' altro, costringe ogni neo-noir dei Duemila al confonto irriguardoso con Lynch, De Palma e lo stesso Egoyan di WHERE THE TRUTH LIES.(Lohman che incontra Alice nella wonder-house hollywoodiana di Colin Firth è, infatti, solo un espediente narrativo).

Qui siamo -forzando un po' i termini della questione- più dalle parti di JENNIFER'S BODY...

 

L' impostazione di Aronofsky, pertanto, non è corretta: LERmontov delegava alle scarpette rosse, da lui scelte, il compito di agire la possessione demoniaca sulla ballerina, mentre qui LERoy è costretto a inventarsi Lily, che diventa un oggetto/mezzo troppo ingombrante all' interno del film.

 

 

Ciò che manca, in BLACK SWAN, è anche la capacità dell' innesco principale della storia di generare uno stile di regia conseguente.

Come nota Deleuze, lo sdoppiamento psicotico di Eve -il cigno nero nel film di Mankiewicz- stratificava biforcazioni su biforcazioni (di senso, di comportamento, di aspetto) in scene piene di secondi piani e fuori campo.

ALL ABOUT EVE è una continuo entrare e uscire dalla scena, un gioco di porte socchiuse, dietro le quali s' intuisce la presenza di altre verità.

Perfetta metafora del teatro, esibisce un meccanismo manovrato da Addison/George Sanders dove tutto è il doppio di qualcos' altro.

Vincent Cassel e la Kunis, per parte loro, non reggono il confronto con gli attori di sessant' anni fa e sono solo l'incarnazione grafica e bidimensionale del male.

Aronofsky rinuncia a una regia che avrebbe dovuto lavorare sugli scarti, le sottili allusioni e, appunto, le biforcazioni, lasciando che gli spazi del New York City Ballet, algidi, grandissimi ma non grandiosi (come quelli barocchi o decadenti di SCARPETTE ROSSE) abbiano la meglio sui protagonisti, schiacciati dal lusso modernista e dalle luci alte e fredde.

In BLACK SWAN è semmai la casa della protagonista ad accogliere una costruzione di spazialità anguste come doppio di un regime militaresco imposto dalla madre ex-ballerina, in un continuo sbattere di porte, togliere maniglie, bloccare entrate per cercare di siglare il trapasso dalla vita come costrizione alla breve parentesi di liberazione coatta.

 

BLACK SWAN è in ultima analisi una grande produzione, un perfetto sguardo sulla tragedia del balletto come radicale scelta di vita -e come tale potrà ragionevolmente essere accostato a RED SHOES nei decenni a venire- ma non ha profondità (anche di campo).

Paradossalmente THE WRESTLER, con i movimenti fluidi della m.d.p. tra camerini e roulottes, spazi angusti di un retro-vita ridotto a backstage, produceva esiti migliori, forse perché libero da ossessioni citazionistiche.

Perfetto e convenzionale, perché non rinuncia a stare nel proprio tempo, il film è un grandioso fallimento, perfettamente in linea con la natura da gambler di Darren Aronofski.
 

02:09:2010

Pubblicata originariamente in venezia.2010

black swan
Regia Darren Aronofsky
Stati Uniti 2010, 108'
DUI: 18 febbraio 2011
Drammatico