Von Trier ha di nuovo cambiato idea. Dopo aver abbandonato e sovvertito la
rigidità del Dogma, dopo aver esplorato i sentimenti più ignobili dell’animo
umano, questa volta si dedica alla commedia, non senza lasciarsi andare ad
una amara riflessione sociale (nemmeno troppo) celata dietro la facciata
dell’ironia. Il regista ci tiene a far notare la sua presenza sin da subito
focalizzando con la propria voce fuori campo lo sguardo dello spettatore
sulla propria immagine riflessa in una finestra mentre è intento a
riprendere la scena. Ci si trova così proiettati nella vicenda filmica
mentre l’autore ci spiega che il protagonista è un attore alle prese con un
ruolo molto particolare: il suo compito è quello di impersonare il
fantomatico Grande Capo di una società di informatica per i pochi istanti
necessari alla transazione di vendita ad un ricco imprenditore islandese.
Purtroppo le cose non andranno come sperato e Sven - questo il nome che
decide di dare al suo personaggio di Grande Capo - si troverà faccia a
faccia con i dipendenti che avranno ora la possibilità di confrontarsi con
il tanto misterioso leader tanto assorto dai suoi impegni da non essersi mai
fatto vedere in tanti anni. Sven scoprirà piano piano che le cose sono molto
più complicate di quanto potesse immaginare, che ogni dipendente si è fatto
una propria idea del Grande Capo e che dietro a tutto questo c’è il
presidente della società il quale, incapace di assumersi le proprie
responsabilità, si è celato dietro questa figura immaginaria con un cinismo
pari solo alla propria debolezza.
Con questa pellicola Von Trier mette in scena una commedia in perfetto stile
Hollywoodiano classico basata sui dialoghi piuttosto che sulle gag visive.
Il regista danese non rinuncia però alla sua spietata visione del mondo e
dell’animo umano. La sua, alla fine, risulta una feroce critica ai rapporti
sociali dell’ambiente lavorativo in cui insicurezza e difficoltà di
comunicazione la fanno da padroni. Alla base di tutto c’è il bisogno di
sentirsi amati e apprezzati a costo di dover mentire in primis a sé stessi.
In questo riaffiorano i temi già presenti nei suoi precedenti lavori anche
se questa volta risultano ben filtrati da uno stile ironico e dissacrante.
Se è vero che dal punto di vista contenutistico Von Trier attinge alla
tradizione, per quanto riguarda lo stile, la messinscena vera e propria, si
assiste ad una innovazione piuttosto radicale quale quella dell’Automavision
che prosegue sulla scia dei suoi ultimi lavori caratterizzati da una regia
che si preoccupa di farsi vedere. In questa tecnica non è il regista a
riprendere gli attori in scena, bensì il tutto viene affidato
all’intelligenza artificiale di un computer che decide quando e dove
staccare, se zoomare o no, quale tipo di campo utilizzare. Abbandonata la
macchina a mano, si viene messi di fronte questa volta a inquadrature più
stabili in cui però gli stacchi non sempre sembrano avere senso, dove parti
degli attori escono dalla scena e con cambi di fotografia non proprio
canonici. Probabilmente grazie al buon lavoro di montaggio e all’attenta e
accurata caratterizzazione dei personaggi, lo spettatore ci mette poco a
sentirsi a suo agio in questa nuova dimensione scenica e a concentrarsi
sulla vicenda senza venire disturbato da tutta una serie di sgrammature
filmiche.
Superati i 50 anni Von Trier non smette di sperimentare, cercando di
sorprendere il pubblico, forse preoccupato di non piacere un po’ come il
personaggio del presidente della società e, come lui, ricorre ad una serie
di nuovi artifizi artistici che potrebbero ritorcerglisi contro, ma in
questo caso il film funziona e sembra essere lui ad avere ragione. A tal
proposito sembra di cogliere una certo spirito autobiografico nella vicenda
quando fa dire al protagonista, citando Iversen, “non è un cattivo regista,
è un regista cattivo”. Di sicuro è un regista che non riesce a darsi pace e
questo dovrebbe già bastare sia ai suoi fan che ai suoi detrattori.
Voto: 25/30
22:01:2007 |