GIOVANNA LA PAZZA
di Vicente Aranda
con Pilar Lòpez de Ayala, Daniele Liotti, Manuela Arcuri

Non è tutto da buttare questo ultimo lavoro dell'autore di 'Amantes', che si confronta qui con la sfarzosa messa in scena di storie di castelli e corone. Il dato storiografico è evidentemente snobbato a privilegio di un dirottamento verso il melodramma sentimentale dai toni forti, a raccontare della passione ossessiva di una donna e del suo uomo inguaribilmente infedele, solo casualmente precipitati a gravitare attorno al trono di una corte imperiale. Né l'autore né lo spettatore si cimentano nel diagnosticare la condizione mentale della protagonista, totalmente trasportati come sono nel dramma del suo malessere interiore. "Secondo gli storici - ci dice il regista - Giovanna è stata pazza fino a verso la metà dell'ottocento, quando uno sconosciuto drammaturgo spagnolo, Manuel Tamayo y Baus, produsse un'opera - mediocre - intitolata "la follia d'amore" nella quale, per la prima volta, si cercava di analizzare il personaggio di Giovanna dal punto di vista dei sentimenti. Sessanta anni prima che i surrealisti cominciassero a parlare di 'amour fou', un umile commediografo spagnolo parla, pur con le goffaggini tipiche del momento in cui scrive, di 'follia d'amore'. Successivamente fin dalla metà del diciannovesimo secolo, quasi per miracolo, Giovanna I di Castiglia ha smesso di essere considerata pazza per entrare a far parte della legione di donne 'esasperate dall'amore'". Ma per la delusione di chi al cinema cerca eroismi patetici che trasudano eccessi, Giovanna non ha l'ardore epico della Giovanna D'Arco di Besson, non è una figura titanica che lotta contro la perversione oscurata dei secoli bui, non è la vittima di un colossale equivoco storico che pretende approvazione o riscatto né, per converso, un pittoresca figlia di satana dotata di un carisma fuori del comune, e non è nemmeno bella; è solo un essere umano annichilito dal morbo di un amore impossibile che non ha niente di esaltante e che riduce di fatto alla goffaggine apoetica di un personaggio perdente, il cui delirio annebbia ogni proiezione nelle orbite esterne: le vicende socio-politiche legate alla corona che indossa sono accessori narrativi che contestualizzano i protagonisti, ma il regista coraggiosamente le confina al di fuori delle mura di cinta del castello dove si consuma un dramma d'amore assolutamente individuale ed astorico, accettando anche di rinunciare all'impatto drammaturgico di espedienti tipici del genere, come ad esempio le masse che acclamano o inveiscono contro l'eroe di turno, la sontuosità delle corti e la solennità degli eserciti. La deriva passionale di Giovanna è totalmente abbandonata a se stessa e la figura di Filippo porta i tratti di un rozzo macho da spiaggia più che di un fascinoso signore di corte, ma la stilizzazione caratteriale sommaria dei personaggi paradossalmente allegerisce la pesantezza di un melodramma che sotto le mani di molti altri sarebbe probabilmente scaduto in un ridodandante polpettone in costume d'epoca. La deviazione emotiva della donna, i suoi eccessi d'amore malato e senza speranza sono squallidi e banali come lo sono le emozioni dell'uomo di strada viste dall'esterno. Un film forse superficiale, ma di una superficialità che non pecca di presunzione e arriva persino ad emozionare quando Aranda fa vibrare le corde di una estetica cinematografica cupa e solenne, come nelle sequenze introduttive che inquadrano la solitudine della vecchia pazza davanti al focolare o la scena della morte di Filippo appestato o la splendida sequenza del corteo funebre dalle tinte monocrome che reca echi Bergmaniani. Un film maltrattato da critica e pubblico ma che forse meritava maggiore indulgenza, almeno fino a quando i rotocalchi continueranno a parlare bene di tanti filmetti e autorucoli che sotto sotto riciclano sempre i soliti trucchi per fare successo al botteghino.

Voto: 25/30 .

MIrco GALIE'
18 - 11 - 02