I FIUMI DI PORPORA
di Matthieu Kassovitz
con Vincent Kassel, Jean Reno, Nadia Farès e Dominique Sanda



Il film inizia con una serie di primissimi piani sul cadavere di un uomo cui sono stati tolti gli occhi e tagliate le mani, mentre alcuni insetti descrivono traiettorie incerte attorno alle ferite, e la luce che pervade l'ambiente è bluastra e il corpo di un bianco livido e freddo e potremmo trovarci tranquillamente in un film di David Fincher. Dopo lo sguardo attonito di un investigatore, seguiamo la cinepresa nel movimento verticale che ci porta sopra le montagne di Guernon, Francia, ove alcuni sorvoli sul luogo di un ritrovamento, conducono lo spettatore verso il centro della storia. Il corpo mutilato era stato lasciato tra le rocce, a considerevole altezza, a mo' di segnale o di avvertimento. La cinepresa sale ancora con un movimento finale alto-basso, da terra a cielo.
Il film potrebbe finire qui, dopo un prologo che mette in campo il buono, e cioè l'ambientazione perlomeno inusuale, e il meno buono, ovvero quel senso di perversione codificata e molto disegnata, quasi da sfilata d'alta moda del crimine hi-tech, che si esprime attraverso ritualità kitsch utili a farci immaginare chissà quali percorsi mentali deviati e uno sviluppo della storia denso e complesso. Mentre si tratta di trappole in cui far cadere l'attenzione labile dello spettatore mediamente distratto per distrarlo ulteriormente. Ora siamo scesi tra gli alberi e osserviamo un attore scelto per la parte del commissario non troppo arguto darsi da fare all'inizio dell'indagine: chissà perché, ma qualcosa ci dice che il poliziotto stolto si lascerà sfuggire di mano l'inchiesta e siamo un po' irritati e abbiamo la sensazione che stia per arrivare il deus ex-machina. Magari grosso e impacciato e con qualche buco nel passato, tipo che adesso lavora per conto suo e non saprai mai perché e, siccome il film è francese, pensi che possa essere Jean Reno e scopri che è proprio lui! E ti immagini i silenzi carichi di significati e il probabile collega più giovane sempre un po' in ritardo nelle deduzioni e i modi bruschi fra i due, che alla fine muteranno in affabilità e in amicizia nella scena finale.
Le cose si complicano un po' in mezzo, a dire il vero, perché gli omicidi rituali diventano tre e coinvolgono l'università del luogo e il suo rettore e indizi sparsi qua e là ci fanno intuire parecchio. Alcuni personaggi si smascherano da soli e accentuano quella sensazione sgradevole che il film voglia arrivare al più presto alla conclusione, incerto un paio di volte se prendere la strada della denuncia o perlomeno del politically correct (imbarazzante la visita al "covo" dei naziskin, appesantita dal più inutile omaggio al kung-fu che si sia mai visto al cinema e unico momento in cui la colonna sonora abbandona l'orchestrazione sinfonica tra Bernard Hermann e Dario Argento, a favore di un techno pop anonimo e il tutto è una palese concessione alle esigenze promozionali dei trailer televisivi).
Lo spazio filmico bipartito si organizza tra la catacombalità dell'edificio universitario e le vette ghiacciate, il che avrebbe potuto anche rappresentare una scelta inconsueta, quando invece va definendosi uno spartito di scelte di regia cui avremmo associato un linguaggio più terso e secco, invece delle continue riprese dal basso negli interni della biblioteca (citazione di INFERNO di Argento???) e dei gratuiti giri a 360 gradi attorno a Vincent Kassel - l'investigatore giovane - nelle scene all'aperto (sembra di essere in LA HAINE, ma lì lo stile seguiva una storia cinetica ed estrema). E poi altre incertezze di registro e salti affrettati nell'horror quando, sempre con la cinepresa dal basso e sempre compressi in uno spazio asfittico e cupo, siamo in una cella di convento e Dominique Sanda versione Belfagor ci inquieta per ragioni diverse da quelle sperate dall'improvvido Kassovitz. O l'assassino che corre i cento piani con indosso una cerata presa in prestito da SCREAM, mentre mille dettagli delle scarpette da ginnastica pongono fine ai dubbi anche dello spettatore meno dotato.
Vorremmo anche sapere come si spiegano alcuni buchi nella sceneggiatura e, in particolar modo, perché non viene chiarito l'aspetto "oftalmologico" della faccenda: Fanny la scalatrice ci vede poco (ma allora come fa a condurre quella vita?), sua madre ha gli occhi bianchi, il chirurgo degli occhi viene ucciso perché anni prima ha effettuato operazioni inserite in un quadro di riproduzione di esseri superiori, ma, letteralmente, certe cose che dovevano essere chiarite non sono proprio dette.
Kassovitz spreca quel po' di talento che aveva per risarcire se stesso e la casa di produzione dopo i disastri di ASSASSIN(S) e, praticamente, si sacrifica con indifferente cinismo sull'altare del prodotto commerciale pieno di stereotipi del genere investigativo e di stravaganti divagazioni citazionistiche.

Voto: 22/30

Gabriele FRANCIONI
17 - 08 - 01


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