è singolare, tornando in auto
dalla visione notturna di una specie di road-movie tempestato di canzoni
anni ’70, sintonizzare la radio su una trasmissione che ti ri-punisce con la
musica (altrimenti splendida) di quel periodo.
Ancor più singolare è che codesto brevissimo viaggio risulti, peraltro,
molto più piacevole del film stesso: un proprio intimo road-trip di 15
minuti preferibile a 150 assolutamente inconcludenti, privi di logica,
tenuta narrativa, stile riconoscibile, equilibrio complessivo (o,
alternativamente, di uno squilibrio poetico, creativo, leggibile come atto
di volontà chiara).
Cameron Crowe si è fumato un intero decennio di viaggi sulle highways
americane, seguendo diversi tipi di piste, dietro a rockstar benevole verso
il giornalista-ragazzino auto-piazzatosi in fondo al greyhound del gruppo.
Costui, non ancora cinquantenne, ci propone il suo unico punto di vista
sugli States: quello interno ai corridoi degli alberghi che ospitavano
Zeppelin e Zappa, groupies e umanità varia.
Il suo destino è, però, di rimanere “quasi famoso”, mai veramente
all’altezza dei suoi idoli o modelli di riferimento (i musicisti, appunto),
perché natural-born-fan, collezionista d’arte altrui e privo di vero
talento.
ELIZABETHTOWN, infatti, è il tentativo assolutamente folle di costruire il
film esclusivamente sulla colonna sonora, ma in assenza totale di sguardo
autonomo, di un’estetica qualsiasi e fallendo nel tentativo di innestare
pseudo-spunti alla Sam Mendes, alla P.T.Anderson o, addirittura, alla Coen,
sullo stesso impianto di ALMOST FAMOUS, travestito per l’occasione da
narrazione anaffettiva e disidratata di un momento di crescita e passaggio
come può essere la morte del proprio padre.
Evidentemente Crowe non è Joel Coen, Sam Mendes o Amenàbar (VANILLA SKY…) e
forse non è nemmeno un regista, essendo rimasto il bravo columnist di
Rolling Stone, peraltro incapace di mettere un freno alla logorrea
citazionistica tipica degli aficionados schiodati anagraficamente dall’epoca
di riferimento, ma mentalmente fissati ad essa col bostik.
Il film è un’odissea in forma di grottesca scampagnata attraverso le terre
del sud (Louisiana, Kentucky), intrapresa da un esangue designer di
sneackers alla ricerca di se stesso, dopo il fallimento del progetto
multimiliardario che doveva dargli gloria e il decesso del parente (poco
frequentato e conosciuto).
Humour grigio-scuro e caratterizzazioni di certi personaggi di contorno,
nonché il pre-spunto vaghissimamente riconducibile a THE HUDSUCKER PROXY, ci
fanno pensare che C. abbia visto (da fan) i dvd dei Coen; la disordinata
coralità messa in scena dopo l’arrivo ad Elizabethtown e l’“amarezza” da
crescita generazionale, sono segno di un desiderio improbabile di rifare
MAGNOLIA alla texana; certi ralenti nei minuti conclusivi (durante il sesto
o settimo degli otto finali filosofeggianti) sembrano voler dire “anch’io ho
visto AMERICAN BEAUTY e ne ho capito il senso!”.
In realtà, finito l’effetto dell’alcool, anche il buon Crowe non potrebbe
negare di avere tra le mani un puzzle terribilmente incompleto e
velleitario, che mette in cortocircuito... tutto. Morte e Rinascita, Rock
Sudista e Jeff Buckley, Nostalgia e Martin Luther King.
La catarsi attraverso il lutto, il viaggio nella memoria, la scoperta dei
Valori e dell’Amore: tutto diventa materia slabbrata e sfilacciata.
Non si ride e non ci si commuove, in questo aiutati dall’inconsistenza
imbarazzante di Bloom & Dunst, buoni per diventare i Barbie & Ken senza
nerbo del terzo millennio: non-attori, bensì muti gadgets in plastica e
ossa, capaci unicamente di far vendere “prodotti” spacciati per immagini
narranti. Ne faranno bambolotti snodabili pronti per le scrivanie natalizie
di ogni american kid.
L’ibrido che ci restituisce lo schermo è indigeribile, un gazpacho dove la
verve dell’aficionado ci sommerge e lì affoghiamo: nomi, titoli, rimandi,
riferimenti, in un girotondo di onomastica da newsgroup internettiano,
gruppo “musica”, sottogruppo “anni ‘70”, sotto-sottogruppo “scoppiati”.
Un diluvio di scene brevi tagliate, mentre l’embrione del senso
desidererebbe essere partorito, per lasciare spazio a decine di intro
chitarristico-acustici in stile SWEET HOME ALABAMA. Evocatività? Zero.
Pathos? Non pervenuto.
Chiunque avrebbe fatto meglio, avendo per le mani una Sarandon, certi bravi
caratteristi, mezzi produttivi senza limite e almeno 4/5 storie dentro la
storia degne di miglior sviluppo. Eppure Crowe non riesce a costruire
alcunché: abbiamo il sospetto che l’atmosfera del set, le location
ammiccanti e altri additivi abbiano contribuito al pasticcio finale.
Il “regista”, come l’ottimo Nick Hornby scrittore musicofilo, dovrebbe
lasciare ad altri la reinterpretazione visiva delle proprie storie (si pensi
ad HIGH FIDELITY), perché il critico musicale ha la tendenza a campionare
suoni e canzoni nella propria testa, ma certo non può considerare
campionabile la vita.
Oltre a ciò, nell’epoca del continuo rimando ad altro, occorre mettere
alcuni paletti: il postmoderno è sicuramente categoria filosofica (Baudrillard,
Lyotard, Derrida), forse categoria dell’arte (Transavanguardia),
assolutamente non categoria dell’anima.
I grandi DJ, i Sergio Messina della situazione – casualmente collaboratore
di ROLLING STONE – campionano, sì, ma mettendo in atto l’arte del riciclo,
che è quanto di più coerente con le necessità dell’oggi e ancor maggiormente
del domani. La differenza neanche tanto sottile tra citazione tout-court e
riciclo di campionamenti di pezzi di realtà chiamati “arte”, sta nelle
modalità associative dei materiali riutilizzati, ove chi ha talento
(pensiamo anche a un Matthew Barney, a un Damien Hirst), riesce a innestare
surplus di comunicazione & senso tali da stravolgere il risultato finale,
altrimenti assimilabile ad un lego indistinto.
Stabilito ciò, non possiamo certo esaltarci di fronte al magma sonoro
crowiano: Ryan Adams, Tom Petty, Lindsay Buckingham - Fleetwood Mac - gli
Hollies di Graham Nash (!), alternati ai meno noti I Nine, Wheat, Jeff
Finlin, Helen Stellar, aggregati a semplici enunciazioni (si parla di Jeff
Buckley, come in VANILLA SKY, s’inquadrano manifesti dei Lynyrd Skynyrd,
epitome del sudismo musicale più estremo, si leggono i nomi di Patti Griffin
e Flying Burrito Brothers), non servono il racconto già smembrato, ma lo
frammentano ulteriormente.
Solo MY FATHER’S GUN degli immensi Elton John & Bernie Taupin degli esordi
(“Tumblweed Connection”, 1971), utilizzato in due momenti del film, emoziona
e rimane l’unico souvenir di ELIZABETHTOWN da portare a casa.
Anche se, volendo essere cattivi, il senso della canzone (“From this day on,
I own my father’s gun…I’d like to know where the riverboat sends tonight, to
New Orleans, well that’s just fine, alright…”), sta nel passaggio di
testimone tra un padre morto e un identico figlio che ne continuerà l’opera,
coerentemente con l’epopea del sud irriducibilmente combattivo. Mentre Bloom,
sparse le ceneri del genitore durante il ritorno verso la California, non sa
ancora chi è, cosa farà, se si suiciderà o meno, come pareva all’inizio, e
il fatto che la sua salvezza e unico centro, unico senso stiano nello
sghembo sorrisetto svampito-alcolico di Kirsten Dunst, mette i brividi e
illumina anche lo spettatore più benevolo e/o assopito: questo qui, dopo 100
canzoni e 1000 “emozioni”, non ha capito nulla della vita.
Per fortuna, mentre boccheggiamo verso l’uscita, Elton John ci viene in
soccorso: “As soon as this is over, we’ll go home”...
Voto: 15/30
07:09:2005
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