ELEPHANT
di Gus Van Sant
Con: Eric Deulen, Alex Frost

di Luca GIAMPIERI


Pare che il regista e sceneggiatore Gus Van Sant abbia scelto il titolo del film affascinato da un’antica parabola zen: l’uomo bendato esamina l’elefante tastandone ogni singola parte, ma non riesce a determinarne la natura.
Una parabola che racchiude in un semplice concetto il pensiero di Van Sant in merito a quello che è oggi uno dei talloni d’achille della società moderna americana: la violenza giovanile unita al libero commercio delle armi da fuoco. Un tema delicatissimo, già affrontato un anno prima, in chiave documentaristica, da Michael Moore con Bowling a Columbine (2002).
Perché, dopo gli interminabili dibattiti televisivi, le analisi socio-psicologiche, e i tentativi pratici messi in atto dal sistema americano, la ferita è aperta e sanguinante più che mai? Perché, pur scomponendo il problema in tanti piccoli segmenti e analizzandoli pezzo per pezzo, il miraggio di una soluzione resta ancora così lontano? Queste le domande che Van Sant si pone nel suo ultimo lavoro, palma d’oro e miglior regia al Festival di Cannes 2003. Domande che non cercano vittime né carnefici. Domande che il regista riesce a plasmare e modellare in 81 minuti, dando forma a un autentico capolavoro.
Emblematico e minimalista, Elephant racconta lo svolgimento di una consueta giornata di scuola a Portland, nel nord-ovest degli Stati Uniti. E lo fa attraverso gli occhi dei suoi protagonisti. John, ossigenato ed efebico, maturato troppo in fretta a causa di un padre dipendente dall’alcool. Eli, pacato e riflessivo, aspirante fotografo. Michelle, bibliotecaria bruttina e fuori forma, emarginata dalle sue compagne di corso. Nates, quarterback della scuola, desiderato da tutte le ragazzine ma innamorato di Carrie. Brittany, Jordan e Nicole, superficiali votate al culto dell’estetica, insoddisfatte delle proprie madri. E poi Alex ed Eric, due fratelli taciturni, estraniati dal contesto familiare e scolastico nel quale si trovano.
Gente normale insomma, con delle paure e dei sogni, riunite in una giornata ancor più normale e anonima. Che alla fine si rivelerà tutt’altro che tale.
Van Sant è magistrale nel rendere la quotidianità attraverso i dialoghi, essenziali ma mai noiosi, e la capacità di utilizzare la cinepresa come sguardo (anche prospettico) dei protagonisti è sorprendente. Le ripetute soggettive ci proiettano nei corridoi e nelle aule della scuola dandoci la sensazione di guardare ciò che ci accade attorno a 360 gradi. Sensazione resa in buona parte dalla “verginità” cinematografica del cast (non a caso i nomi dei protagonisti sono gli stessi degli interpreti). È fuor di dubbio che l’utilizzo di attori noti al grande pubblico avrebbe tolto alla pellicola quella spontaneità indispensabile.
Contrariamente al documentario di Moore, Elephant vuole che a farci riflettere siano i brividi da pelle d’oca e non le informazioni politico-sociali; vuole scuotere e colpire dove fa più male: nella nostra routine, nelle emozioni e nei piccoli gesti che commettiamo ogni giorno senza prestarvi attenzione, quasi meccanicamente. Perché è nella nostra quotidianità che se urtati barcolliamo confusi, dimenandoci, sforzandoci di cercare un senso, una via d’uscita. È questo il nervo scoperto che Van Sant sfiora sapientemente, accompagnandoci per i tre quarti del film lungo i luminosi corridoi della scuola, introducendoci a John ed Eli come un amico premuroso…per poi lasciarci soli e indifesi in balìa di una situazione che un senso non ce l’ha. Improvvisamente le nostre certezze crollano, sentiamo solo il nostro battito aumentare, le gambe appesantirsi per la paura, il fiato farsi più affannoso. Siamo tesi come corde di violino, pronti a vibrare. Poi gli spari, le urla, il panico…fino a che è di nuovo quiete. Ma una quiete che ci avrà cambiati. Per sempre.
 

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Voto: 29/30

05.11.2003

 


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