Tratto
dall’ultima sceneggiatura di Alberto Lattuada,
The fine Art of Love è
ambientato in un collegio femminile in Turingia, Germania, ai primi anni del
1900. Dietro l’apparente convenzionalità di un sistema educativo rigido e
severo cominciano a intravedersi loschi segreti. Una serie di terribili
eventi si evolve rivelando un intreccio di interessi tra la direttrice e il
teatro, sotto la connivenza della polizia per il compiacimento della
nobiltà. Il film si consuma nell’arco della preparazione del ballo in
omaggio al principe, su cui drammaticamente si giocano le illusorie
aspettative delle aspiranti principesse…
Carico di
suggestioni, ma non adeguatamente sviluppate, il film di Irving convince non
tanto per il plot, tra il confuso e il fabulesco, quanto per la profondità
dei significati simbolici, trasponibili sia a livello psicologico che
storico sociale.
In una diversa prospettiva può infatti essere letto in questo senso. Nella
Turingia di inizio secolo, i resti sconocchiati di un decadente impero
austro-ungarico si difendono dal cambiamento nella conservazione
dell’accademia, ma del passato non restano che i rigurgiti più degeneri di
uno
status quo
che affonda le sue radici nel feudalesimo e si basa ormai solo su ragnatele
e compromessi, retto da oscuri e segreti complotti, grazie alla vendetta e
alla paura. Vendetta sul più debole di chi in passato è stato sotto il
giogo, e paura di subire. Sintomi di debolezza di un impero vacillante come
debole è il carattere dei promotori di questo reiterarsi. Perché chi è
forte, audace, coraggioso, o anche solo curioso, paga. Ecco come la
dimensione psicologica si innesta su uno sfondo storico sociale nel sistema
delle rappresentazioni.
Il collegio è il simbolo della conservazione dell’accademia, roccaforte di
immobilità, soprusi e segreti. La sua forza sta nell’incomunicabilità con
l’esterno, significative in questo senso le figure del guardiano sordomuto e
del medico ubriaco. La totale incomunicabilità, coincide con la totale
assenza di via di uscita, rappresentata dal cancello. Nulla è di fatto quel
collegio se non una prigione, a sua volta simbolo di una visione della vita
di un pessimismo disperato, dove non c’è via di fuga, i sogni non sono che
illusori, il cambiamento non può essere che in peggio. Della prigione il
collegio conserva lo spazio chiuso, recintato, la claustrofobia che si
riflette negli altri luoghi dell’ambientazione: la biblioteca, il teatro, il
castello, la stessa che si respira negli intrecci di legami sentimentali,
nella devianza dei costumi, storicamente legata alla decadenza.
Fa da sottofondo costante un pessimismo radicale, che si manifesta
nell’immobilismo del reiterarsi dello status quo, nelle stratificazioni del
compromesso, nel ritorcersi del danno subito sull’altro ogni volta
peggiorandone l’effetto, nell’impossibilità di qualsiasi cambiamento.
Nell’economia delle sorti dei personaggi, l’unica alternativa alla prigione
è la morte. All’interno del collegio, chi viene scoperta mossa da passioni
sconvenienti, viene tramutata in serva, chi osa sapere, viene lasciata
morire, chi tenta la fuga, attaccata dai cani da guardia e poi uccisa con
una dose eccessiva di morfina. Unica salvezza la rassegnazione, la docilità,
l’annullamento. Ma questa salvezza non è che temporanea: infine la stessa
direttrice (Jacqueline Bisset ) cade vittima del suo stesso meccanismo e
indotta al suicidio. Il meccanismo si rivela, mietendo vittime, ma permane,
apparentemente senza possibilità di mutamento. Del resto anche all’esterno
chi cerca di indagare, di ostacolare il reiterarsi del sistema, di
opporvisi, viene bloccato sul nascere. E’ questo il caso dell’ufficiale di
polizia (Lo Verso), caldamente invitato a sospendere le indagini sotto
minaccia di invio in Africa Orientale.
Il dramma incalza scandito da fatali eventi, mentre il segreto prende voce
fino all’urlo della prima ballerina stuprata dal principe.
Anche se poche e apparentemente irrilevanti, sono proprio le brevi aperture
all’esterno a conferire quel respiro al film diversamente poco
significativo. Sono infatti questi riferimenti al contesto storico sociale a
calmierare la claustrofobia, la sovrabbondanza di suggestioni, il gusto al
limite del compiacimento sadico e il pessimismo a oltranza più fiabesco che
verosimile. Ed ecco che allora la vicenda al di là del gusto personale, può
avere un senso, stando emblematicamente a rappresentare la resistenza dello
status quo, il reiterarsi dei vincoli sociali, la crisi di un sistema basati
sulla gerarchia, il privilegio e l’omertà, i rigurgiti delle sue parti più
degeneri.
Voto: 25/30
07/09/2005
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