il dolce e l'amaro

di Andrea Porporati

Con Luigi Lo Cascio, Fabrizio Gifuni, Donatella Finocchiaro

64mo festival di venezia

di Gabriele FRANCIONI

Per scardinare le certezze di Cosa Nostra, almeno fino a un po’ di tempo fa, ci volevano le donne e i bambini.

Non ora, non più, come purtroppo ben sappiamo.

IL DOLCE E L’AMARO, secondo miglior film italiano alla Mostra del Cinema di Venezia dopo LA RAGAZZA DEL LAGO, parte dagli anni Ottanta e coglie forse l’ultima fase del tragitto d’onore della mafia siciliana, in cui era ancora possibile innamorarsi di una donna incongrua rispetto al sistema di regole imposte dall’affiliazione e quindi in grado di mettere in crisi il singolo mafioso, dotato anch’egli di una vita interiore.

Luigi Lo Cascio (Saro Scordia), in uno dei suoi ruoli migliori, perché paradossalmente meno stressato e nevrotico del solito, è un peterpan che diventa violento per vanità, ma rimane attaccato per tutta la vita a una sola certezza, ovvero l’amore verso Ada (Donatella Finocchiaro), che non vuole sposarlo per ciò che Saro diventa, dopo un’infanzia normalmente povera.

Lui ha un’indole tranquilla e Cosa Nostra può significare solo l’unico modo per mettere in atto una qualche forma di scalata sociale.

La violenza è un videogioco prima dell’era dei videogiochi, una danza giocosa e inarrestabile durante la quale è proibito rallentare il passo.

Più che un film DI MAFIA o SULLA MAFIA, più che una fiction indagativa, IL DOLCE E L’AMARO è il tentativo di far comprendere come essa agisca sull’immaginario degli adolescenti e dei ragazzini, che non hanno alternativa, rispetto a un futuro senza prospettive, se non quella di diventare attori sulla scena del crimine.

Un’aura decisamente scorsesiana pervade questo film, sia nell’assunto iniziale appena enunciato, che rimanda all’incipit di GOODFELLAS (Ray Lotta è lì un Saro degli anni ‘50/’60), sia per ciò che concerne l’aspetto formale, forse, però, più in termini di fotografia e ambientazione, che di regia. Di Scorsese, peraltro, Porporati fa sua anche la convinzione che solo la mafia, dotata di regole ancestrali, primitive, rappresenti, oltre ogni dato sociologico, il luogo simbolico dove poter mettere in scena l’essenza primordiale dei legami di sangue, naturali o acquisiti che siano. In questo senso, Scorsese e Porporati, ragionano utilizzando categorie universali e fuori dal tempo, lontane dalla contingenza di una specifica epoca.

Mentre la scalata di Saro sembra procedere in una sorta di limbo indefinito, i grandi vecchi hanno già preparato la transizione verso la guerra di mafia, che porterà al processo ai capi, al fenomeno dei pentiti come Tommaso Buscetta, all’ascesa di Riina e Provenzano, i corleonesi, alle vette della gerarchia di comando.

La perdita della regola e della misura agisce su Saro, sempre personaggio d’immaginazione, con effetti devastanti, che, pur non portandolo a una totale e convinta dimissione della parte di sé ancora legata al patto di sangue, insinueranno però il germe del dubbio e la convinzione di dover trovare una via di fuga. La via di fuga si chiama, come sempre, Ada, trasferitasi nel norditalia.

L’insensato assassinio di un trafficante di droga e una rapina dai risvolti quasi comici, entrambi al Nord (anticipato come alterità verso la quale tendere) avevano aperto crepe nell’animo di Saro.

Il tragico episodio di violenza verso un gruppo di bambini, cui lui non partecipa, quindi la definitiva rottura del codice, è invece la molla che convince definitivamente Saro a partire verso qualcosa di concreto (un lavoro normale) e indefinito allo stesso tempo (la relazione con Ada). La conferma della qualità umana del protagonista è data, però, anche da altro, ovvero il rapporto a distanza con l’alter-ego Stefano Massirenti, un formidabile, intensissimo Gifuni, che ha scelto l’ardua, molto più ardua scalata dentro la legalità.

Quella stupefacente elasticità interpretativa di cui Fabrizio e Luigi ci hanno parlato nell’incontro con Kinematrix (si veda l’intervista), frutto dello straordinario lavoro con Orazio Costa all’Accademia Silvio d’Amico di Roma, viene confermata dal continuo alternare ruoli da bad-guy e tutori dell’ordine, buoni e cattivi, maudits e redenti da parte dei due attori, che si pongono a tutti gli effetti come l’ormai consolidata avanguardia recitativa in Italia.

Non possono che essere due attori con formazione teatrale a indicare la via alle nuovissime generazioni, distratte da figure inconsistenti di non-attori privi di ogni background.

Duole dirlo, ma i media e il mondo produttivo contribuiscono a creare lo schema secondo cui esistono rigide categorie generazionali di fruitori/spettatori legate ad altrettante categorie di interpreti identificati in base all’età, in cui riconoscersi piattamente.

I ventenni credono che Scamarcio e Capotondi siano attori, i trentenni s’illudono che lo siano Mastrandrea e Gerini, mentre i più colti e preparati (e ultratrentenni) necessariamente convergono verso i Gifuni, i Lo Cascio e i Servillo !

Non è un caso che i vari Porporati, Giordana, Gaglianone, Piccioni, Chiesa, Amelio, Sorrentino, G. Bertolucci, Puglielli si rivolgano esclusivamente a questa categoria di attori “a parte”, perché sono l’élite formatasi a teatro (andatevi a leggere i curricula di Servillo, Gifuni e Lo Cascio: tutti anche autori e registi, tutti con un’impressionante attività sul palcoscenico, rispetto alla quale il cinema è un bellissimo divertissement!).

Il resto, gli altri, sono prodotti mediatici o da rotocalco, spendibili in un contesto limitato che poco ha a che fare con l’arte e molto col marketing, vista la loro formazione: c’è chi proviene dal “Maurizio Costanzo Show”, chi da “Non è la Rai”, chi dalla fiction televisiva.

Questo è uno dei principali motivi di una stasi ormai diventata cancrena del nostro cinema, che nulla vuol fare per rinascere.

IL DOLCE E L’AMARO è, in definitiva, un buon film di un bravissimo regista, anche se non raggiunge le vette dello splendido e più intimo IL SOLE NEGLI OCCHI.

La pellicola si fa comunque apprezzare, oltre che per ciò che è stato già analizzato, anche per le sapienti ellissi narrative finalizzate a scartare la violenza più cruda, dirottata sul piano dell’immaginazione.

 

Voto: 27/30

08:09:2007

 

Tutte le recensioni di Venezia  2007

 il dolce e l'amaro
Regia: Andrea Porporati
Italia 2007, 98'
DUI: 05 settembre 2007
Genere: Drammatico