DOGVILLE:

il teatro nel cinema

di Valeria STOPPELLI


Fin dalla nascita il mondo del cinema ha sempre tratto ispirazione dal teatro in molti aspetti. Ma se a causa dell’avvento del digitale e degli effetti speciali queste due realtà sembrano sempre più lontane qualche regista dimostra di saper ancora attingere dall’immenso patrimonio che secoli di storia del teatro forniscono all’uomo. E’ il caso di Lars von Trier e della sua ultima fatica, Dogville.
La pellicola narra la storia alquanto assurda di una giovane donna (Grace) che fuggendo da un inseguimento si ritrova per caso in un antro buio della realtà umana, Dogville appunto. Questo insediamento di circa dodici famiglie apparentemente normali acconsente, su suggerimento di un giovane aspirante scrittore molto critico verso la sua comunità (Tom), a nasconderla in cambio di piccoli favori. Con l’intensificazione della pressione da parte dei ricercatori di Grace, i cittadini di Dogville diventano lentamente sempre più esigenti nei suoi confronti. Il percorso che li conduce sulla strada della violenza e della crudeltà animalesca diventa ogni momento più breve, fino a rasentare l’incredibile. Privata ormai di ogni cosa Grace si abbandona passivamente alla vendetta più atroce, degna conclusione del suo singolare viaggio interiore di uscita dalla purezza e dall’ingenuità. Il risultato di tutto ciò è la sparizione dell’immaginaria Dogville dalla faccia della terra: inutile dal momento che la sua anima, le sue regole, la sua prassi restano.
Se la storia (di emarginazione, crudeltà, vendetta) può non sembrare particolarmente innovativa, seppur profonda e piena di spunti di riflessione, l’eccentrica soluzione scenica richiama sicuramente l’attenzione. L’ambientazione scelta da von Trier, infatti, è tutto tranne che cinematografica: si presenta come un grande pavimento di linoleum nero ed asettico su cui compaiono in bianco i perimetri delle abitazioni, nonché i rispettivi nomi. Perfino la presenza di immaginari cespugli di bacche è segnalata. Lo spazio dell’azione è completamente circoscritto a questi pochi “edifici”; intorno il nulla… Il nulla oppure il tutto che non si vuole o non si ha il coraggio di percepire. Lo spettatore sa che l’azione si svolge in un sito non ben definito sulle montagne rocciose, ma le rocce dove sono? Solo teli neri (bianchi se lo spettatore deve captare al primo sguardo l’arrivo dell’alba): uno stimolo per l’immaginazione, spinta continuamente ad immaginare spazi e vite e realtà migliori al di là di quello??
Piuttosto i limiti di una prigione invisibile, quella del pensiero, della paura, dell’ignoranza, quella da cui veramente non si può scappare. Proprio come su un palcoscenico dove non c’è la percezione della dimensione cielo, lo spettatore stesso è costantemente indeciso se adottare una prospettiva di infinità o di assoluta claustrofobia. La stessa sensazione si percepisce concentrandosi sugli edifici: non ci sono mura, se non immaginarie, né fra le case e l’esterno, né all’interno delle case fra una stanza e l’altra. Le inquadrature a campo largo sembrano restituire scene di vita in una piazza , luogo comune dove si cammina, si vive, si sente l’esistenza altrui ma la si ignora, protetti dal proprio sguardo fisso verso uno scopo, dalla propria solitudine all’interno di una moltitudine. L’assenza di mura vuole testimoniare un tacito legame fra i personaggi o li distacca ancora di più di quanto reali pareti di mattoni potrebbero fare? La vita di ciascuno è sì sotto l’occhio implacabile di tutti gli altri, ma non certo affinché la reciproca conoscenza possa essere utile per il bene della comunità.
L’effettivo distacco fra gli abitanti di Dogville è in realtà testimoniato principalmente dall’assenza di porte. L’impressione a freddo è che un ulteriore sorgente di separazione sia eliminata, se non fosse che ciascun personaggio è perfettamente consapevole che queste in realtà esistono, sono reali, muovendosi le toccano, le sfiorano, le aprono le chiudono e se non le chiudono in ogni caso sono chiuse lo stesso. L’attore si scopre mimo nel disegnare le loro maniglie, nel non nascondere la loro presenza, nell’esserne in un certo senso condizionato. Il loro significato per i personaggi assume sfumature diverse: gli abitanti di Dogville le custodiscono gelosamente, ne sono protetti, ne ricavano piccole certezze quotidiane a cui aggrapparsi. Dopo tutto la loro esistenza è giustificata da un quadratino di terra su cui possono esercitare pieno potere e l’ingresso legittima il loro avido e meschino insediamento. Tom, il “dogvilliano” più intraprendente che per primo decide di accogliere Grace, ha un’accentuata mobilità all’interno dei diversi spazi del paese, sembra non appartenere strettamente a nessun metro quadrato di terra se non allo spazio comune, alla strada. E da questa è imprigionato, limitato: nonostante possa apparire slegato dalla città ne è il più condannato in quanto i suoi confini sono le altre persone, di fronte alle quali si è accollato la responsabilità delle conseguenze che la nuova arrivata porterà in città. Il suo percepire l’oggetto porta all’interno del contesto cittadino assume il significato di un ritorno alla realtà delle cose, di un continuo confrontarsi con le egoistiche esigenze di uomini dalla mentalità ristretta. Egli sente la presenza di quelle barricate fisicamente inesistenti ma simbolicamente così nette e tenta di porsi in una situazione intermedia fra quelle entità a sé stanti e il suo tentativo di apertura: fin dall’inizio della vicenda egli identifica il problema fondamentale dei cittadini di Dogville nell’incapacità di accogliere. E’ la capacità di aprire realmente la porta all’”altro” che ad ognuno degli abitanti manca, non è sufficiente affidarsi ad una finzione per poi richiudere a chiave ogni contatto col mondo esterno. Ma nonostante capisca la causa profonda del marciume e della fissità di quella comunità non riesce a sradicarlo, perché in fondo anche lui non è mai riuscito ad avventurarsi oltre certi confini, non ha mai oltrepassato la soglia delle montagne, della miniera, del paese, non ha ragionato su nessuna realtà se non quella di Dogville. Anche all’arrivo di Grace non si preoccupa di sondare le sue abitudini, di analizzare le sue esigenze, piuttosto la inserisce nella perversa routine della sua realtà. E da quel momento comincia per lei un rapporto molto ambiguo con l’accoglienza della gente: prima respinta, poi lasciata entrare di malavoglia, poi accolta per il solo scopo di essere torturata. Il suo rapporto con ogni soglia di ogni casa è altamente conflittuale in quanto sa di non avere realmente accesso da nessuna parte ma non avendo alcuna scelta si fa avanti, cerca con la delicatezza, con la disponibilità di oltrepassare quel qualcosa che sente ma che non può vedere. Ma ben presto quegli stessi oggetti simbolici che voleva riuscire ad utilizzare in completa libertà diventeranno complici dei suoi nemici: essi se ne serviranno per proteggersi dallo sguardo altrui nel momento in cui compiono soprusi su Grace ed allo stesso tempo per ostentare la loro fittizia ospitalità. Nel momento in cui la diffidenza e la crudeltà avranno raggiunto l’apice l’oggetto porta abbandonerà ogni ipocrisia ed ogni funzione di maschera per tornare al suo stato originario di invisibile cerbero. In un mondo ipocrita ha molto più potere ciò che pur esistendo gli occhi non vedono.
In effetti una porta fisicamente visibile esiste su questo grottesco palcoscenico: è l’ingresso dell’unico negozio di Dogville. Si tratta di un luogo vagamente comunitario che assume il significato di spazio della speranza per Grace: ogni suo acquisto simboleggia un passo avanti nell’integrazione nel paese. E’ l’unica soglia che non esercita su di lei un effetto di repulsione, di paura soffocata, anzi lei desidera il suo contatto. Questo avviene esclusivamente perché l’ambiente negozio non può essere delimitato, ma non significa necessariamente che i proprietari siano di più ampie vedute, sono esattamente come gli altri.
Molti recensendo il film hanno fatto ampi riferimenti all’arte brechtiana, ritrovando nell’impostazione scenica un desiderio di straniamento dello spettatore. Certo il riferimento viene naturale ma in parte questo effetto è ridotto dai mezzi propri dell’arte cinematografica: i continui primissimi piani, l’immersione dello spettatore in un nero totale sembrano volerlo inserire pienamente nell’azione e forse ancora più a fondo nella psiche dei personaggi. Lo spettatore ha il totale potere sullo spazio: gli si dona qualsiasi prospettiva, dalla più ravvicinata alla più generale, diventa una sorta di divinità onnisciente ma impotente. In realtà l’impostazione totalmente teatrale del set ambisce ad una funzione altamente simbolica che un’ambientazione tradizionalmente cinematografica o semplicemente naturalistica non potrebbe raggiungere. Sebbene i due mondi (cinema e teatro) abbiano ben poco in comune il potere dell’uno inserito nell’altro è fortissimo: crea un senso di perdita dei riferimenti nello spettatore ma lo costringe ad una maggiore concentrazione sul dettaglio, sul significato nascosto. Dunque nonostante si possano riscontrare molte idee fortemente teatrali, il film resta comunque strettamente legato al mezzo cinematografico, al suo linguaggio, al suo potere. O meglio il legame dei due mondi in questo caso permette di veicolare certi significati che in altro modo resterebbero latenti.
 

10.11.2003

 

DOGVILLE

il set come tavolo da gioco

di Giovanni MEMOLA


La vicenda è ambienta negli anni Trenta, periodo della Grande Depressione americana, la giovane e bella Grace (Nicole Kidman) capita per caso a Dogville, striminzito paesino ai piedi delle Montagne Rocciose, popolato da appena quindici anime. Costei viene dalla città ed è inseguita da individui inquietanti, che offrono una ricompensa a chi sarà in grado di riportarla a casa. Tom (Paul Bettany), un giovanotto del posto con aspirazioni incerte fra scrittura e filosofia, la mette in salvo, nascondendola nella vecchia miniera. Passato il pericolo, propone alla comunità locale di “adottare” la giovane, come dimostrazione di altruismo e apertura. Il consiglio del paese decide di concederle due settimane per integrarsi e, al termine della scadenza, solo un’approvazione all’unanimità potrà permetterle di restare. Dopo le prime reazioni riluttanti di alcuni, Grace entra a pieno titolo in seno alla minuscola società, offrendo i propri servigi con entusiasmo. L’esito della votazione le è favorevole. Gli abitanti di Dogville le si affezionano e la ricompensano con modesti salari e una casa ricavata nel vecchio mulino. Si instaura un clima idilliaco e fraterno, che culmina nella festa del Quattro Luglio. Ma proprio durante la celebrazione, lo sceriffo arriva dalla valle e affigge nel mezzo del paese un ordine di cattura, che riguarda proprio la nuova arrivata. La donna è definita pericolosa e su di lei c’è una taglia cospicua. Il clima si guasta presto e Grace viene intrappolata in un meccanismo di violenza psicologica prima, e fisico-sessuale in seguito, al quale non riesce o non vuole sottrarsi. A causa dei troppi incidenti provocati (fatti provocare) dalla straniera, i locali decidono di consegnarla ai gangster, che verranno a riprendersela con conseguenze catastrofiche.
L’intera vicenda filmica si svolge in uno scenario reso surreale dalla quasi totale assenza di elementi scenografici. Dogville è un palcoscenico, in cui le costruzioni sono abbozzate da sagome disegnate a terra. Le case, le vie, i giardini, la cuccia dell’unico cane e il cane stesso, sono tracciati sul pavimento, come sul prospetto di un gioco di società – ed è significativo e curioso che parole straniere come play, Spiel e jouer significano nelle rispettive lingue al contempo sia teatro (inteso come rappresentazione) che gioco. Una spogliazione che in realtà assolve ad una azione di vestimento dell’effimero come afferma Mauro F. Giorgio:

È innegabile che in Von Trier, oltre alla supponenza della proclamazione di un “Voto di castità” come infinito amore per il cinema e dunque come volontà di purezza e necessità, esista anche una irridente volontà di falsità, di finzione. In questi termini diviene comprensibile la sua volontà di concepire il set come tavolo da gioco, come spazio teatralmente ludico, o ludicamente teatrale su cui vanno un po’ giocate le sorti del cinema. […] Attraverso una delegittimazione del privilegio dell’occhio, del vedere (pur non essendone destituita di valore l’istanza scopica), che sembra provenire da e prolungare il discorso di Dancer in The Dark, Von Trier lavora non esattamente per sottrazione ma piuttosto per astrazione affidandosi ad un discorso semiotico che fa leva sulla disseminazione dei significanti. La sottrazione degli elementi spaziali dà luogo alla funzione attanziale del segno: più lo si “spoglia” del significante e più lo si carica di senso rivestendolo di simbolicità. Il gioco del denudamento si avvicina moltissimo al paradosso dell’assenza (la nostra attenzione si rivolge a ciò che è assente proprio per il suo essere assente, presentificandolo in modo ancor più esemplare della semplice presenza, in questo senso il dominio del simbolico che cade sotto le figure retoriche dell’allegoria e della metafora si pone come esatto contrario del fattuale, dell’evidente che ha la litote come topos retorico). Allora è sufficiente un (di)segno a costituire un set, un espace theatralizé, per (de)costruire mediante il senso della mise en scène un discorso di rappresentazione filmica, in cui vengono rappresentati, ovvero ri-presentati aristotelicamente gli umani accadimenti attraverso una mimesi estetica: la filmicità presenta gli stessi limiti spaziali che appartengono al set, come lavagna concettuale in cui Von Trier disegna la realtà. Non ha più senso dunque parlare di confine tra realtà e finzione, ed è questa poi la posta rimessa continuamente in gioco della cinematografia vontrieriana, neanche in termini dialettici. Il cinema (non) è il cinema. Questo è l’approdo teorico godardiano tautologico, paradossale e che comunque sintetizza le già avvenute conclusioni di Dziga Vertov, Orson Welles, Alfred Hitchcock e Carmelo Bene [1] http://objectif83.splinder.com/ - _ftn1.

L’idea di questo denudamento scenografico sovviene al regista a stesura della sceneggiatura ultimata, muovendo dall’assunto generale che la cittadina di Dogville “funziona” come una mappa. In seguito l’idea è stata sviluppata brechtianamente – come lo stesso Von Trier riconosce [2]http://objectif83.splinder.com/ - _ftn2 – dimodoché tutti possono vedere tutti allo stesso tempo. Dentro/Dietro queste sagome tracciate, la gente vive e lavora, oltre muri e porte inesistenti. Come in un gioco di società, i personaggi si muovono secondo schemi fissi, pedine di una vita di provincia, che non lascia scampo. Dogville infatti è posta in un vicolo cieco e l’unico modo per uscirne è tornare indietro. Gli abitanti giocano con Grace come il gatto col topo: è l’elemento estraneo, che fa fatica ad essere accettato, ma che una volta dentro non può più opporsi alle regole, che non conosce e che la schiacciano. Grace però saprà vendicarsi, dopo aver rivelato la sua vera natura. Tutto intorno a questo enorme palcoscenico, c’è il nulla: un nero pauroso per la notte e un bianco lattiginoso per il giorno. È teatro puro, ciò che viene proposto, con l’aggiunta dell’elemento, che il teatro per sua natura non può dare: il primissimo piano, il sospiro appena percepibile. Il cineasta danese sposta l’azione da davanti a dietro alla telecamera. La pièce è praticamente statica: non c’è azione, se non il muoversi delle pedine da una casella all’altra, mentre la camera è in costante movimento. Il regista stesso la manovra, e non potrebbe essere diversamente, data l’assoluta intersecazione della recitazione con il movimento di macchina. L’assenza di barriere fisiche rende perfettamente la sensazione dell’impossibilità di vivere una vita propria, in comunità così piccole e chiuse. Anche se esteriormente i personaggi badano ai fatti loro, si ha sempre la sensazione che la privacy di ognuno venga invasa. Chiara ed esplicita in questo senso è la scena della prima violenza sessuale, subita da Grace: l’azione si svolge dentro una “casa”, mentre la vita “fuori” continua regolarmente. Ciò che il pubblico invece vede, è una donna stuprata davanti a un sacco di gente, che fa finta di niente: cioè, in fondo, quanto di norma avviene in queste comunità. C’è senza dubbio astio nei confronti di una certa cultura americana, e la scelta del Quattro Luglio, come punto di svolta per il tradimento del paese verso Grace, non è casuale: la festa nazionale americana più sentita, si rivela occasione per il manifestarsi dei sentimenti più bacchettoni e vigliacchi. È curioso che Von Trier non abbia mai visitato gli Stati Uniti, eppure per l’enorme influenza che culturalmente imprime l’America all’Europa, egli sente di sapere dell’America e sapersi americano come peraltro ha spesso dichiarato in diverse interviste:

Io sono americano. Mi trovo lì e prendo parte alla vita americana. So esattamente com’è questa: è all’incirca com’è qui. Gli americani erano solitamente europei, o quelli a cui posso facilmente essere imparentato; e probabilmente quelli che sono andati in America non sono poi i più brillanti! Ci sono un sacco di storie di gente che è andata in America perché stava morendo di fame. E nella società liberale, generalmente vai laddove non si muore di fame. Ma alla gente non è più permesso di fare questo, per qualche strana ragione. […] E così l’America sta chiudendo i suoi confini. Avevo sempre ritenuto l’idea americana di ammettere tutti una grandissima qualità. In Scandinavia l’integrazione è un aspetto importante: da qualsiasi parte tu provenga ti dicono: “Diventerai danese?” e ti dicono “Sì, sì, sì, naturalmente”, ma qualcuno li sta colpendo alle spalle. E dopo per essere integrati è molto, molto importante imparare la lingua, imparare gli usi e costumi, non uccidere gli animali con pratiche dolorose, e tutte queste cose. Suvvia! È nient’altro che il modello scandinavo poiché vogliono integrarli nella società così da poterli modificare! È così arrogante! Non sono mai stato a New York, eppure adoro l’idea di Chinatown e tutte queste cose. Le trovo fantastiche. Le ritengo davvero idee stupende. Però sono convinto che non si tratti di idee propriamente americane: le sento essere in qualche modo parti di un’idea più ampia [3]http://objectif83.splinder.com/ - _ftn3.

A chi ha ravvisato elementi anti-USA in Dogville, Von Trier risponde quindi che non può essere anti-USA perché egli stesso è parte integrante degli USA! Probabilmente è l’ennesima risposta provocatoria del regista, che tuttavia non nasconde la sua avversione alle politiche americane, specie in materia di guerra. E ai giornalisti presenti a Cannes per la presentazione di Manderlay che lo incalzavano, Von Trier ha risposto: «Volete che vi dica che penso che Bush sia un cretino? D’accordo ve lo dirò: Bush è un cretino, contenti?». A chi gli dice d’aver avuto la presunzione di aver “parlato” di un’America dove non ha mai messo piede, ricorda che anche Kafka ha scritto Amerika, basandosi unicamente su una serie di corrispondenze tenute con suo zio. (E in Epidemic, c’è un “assaggio” di questo curioso riferimento in una scena in cui Niels Vørsel racconta allo stesso Von Trier di una serie di corrispondenze tra lui e una ragazza di Atlantic City). Tuttavia il fatto stesso di aver ambientato la vicenda di Grace in America e di aver dichiaratamente specificato che la trilogia tratterà degli USA come terra di opportunità, non riesce a fugare i dubbi di antiamericanismo. Ma andiamo per gradi passando in rassegna le possibili chiavi di lettura di Dogville.
Dogville è in prima istanza un film sull'accettazione di un dono: un gesto più difficile di quanto sembri, perché un dono è qualcosa che dall'esterno arriva improvvisamente nella nostra vita, suscitando sentimenti magari a lungo soffocati (emblematica è la metamorfosi emotiva di tutti i personaggi) e, soprattutto, reclamando una contropartita, un nuovo atto di generosità. Il discorso imbastito dal regista è, però, più complesso. Il dono in questione, infatti, è un essere umano e, per la precisione, l'ennesima declinazione della figura dello straniero, nei confronti della quale è giocoforza instaurare un rapporto in bilico tra strisciante repulsione ed irrefrenabile fascinazione: un'ambivalenza che si manifesta, ad esempio, nella suspense della scena della votazione (in cui l'ultimo e decisivo rintocco di campana che sancisce la permanenza di Grace risuona qualche minuto dopo gli altri, come il tardivo affiorare di una pulsione repressa) o in quella del tradimento finale di Tom (che consegna Grace ai suoi persecutori non prima di averla ardentemente desiderata). D'altro canto, poiché il film rappresenta il cinico asservimento di una “extracomunitaria” (tale è, nel senso letterale del termine, Grace, che deve farsi accettare dalla chiusa comunità di Dogville), è inevitabile cogliere anche un risvolto politico, un'allusione alla falsa coscienza dei Paesi occidentali che dichiarano di poter fare a meno degli immigrati e della loro forza-lavoro («non abbiamo compiti da darti», si sente ripetere inizialmente Grace) ma, quando il superfluo diventa necessario e rinunciare a certe nuove comodità risulta ormai impossibile, non sanno esimersi dallo sfruttarli. Il tema, dunque, è strettamente attuale (lo si capisce ancor più mentre, accompagnati dal brano Young Americans di David Bowie, i titoli di coda scorrono su crudi scatti fotografici riservati a figure del sottoproletariato urbano), e Von Trier lo affronta senza trascurare importanti agganci come i rischi dell'isolazionismo culturale e della xenofobia (sempre più concreti nel dopo-11 Settembre) nonché l'incapacità degli intellettuali (rappresentati da Tom, velleitario scrittore-educatore, ma che incarna anche l’America che quando si mette a parlare di filosofia parla di scelta e si pone davanti solo due vie: una giusta e una sbagliata) di superare il mero umanitarismo e proporsi come pragmatiche guide dinnanzi a problematiche così spinose (ad un certo punto, alle spalle di Tom fa capolino, con evidente effetto antifrastico, la scritta “dictum ac factum”). C'è, poi, un ulteriore livello di lettura: la parabola cristologica. Grace (“la Grazia”) si fa umile serva degli altri, si fa carico dei loro peccati (evocati dal simbolo della mela edenica), è messa in ceppi (o – se volete – al guinzaglio, come il cane di cui ha virtualmente preso il posto sin da quando ne ha rubato l'osso all'inizio del film) ma, dopo essersi ricongiunta al padre, acquisisce improvvisamente una statura sovrumana che le dà il potere di disporre della vita e della morte degli abitanti di Dogville. E, proprio su quest'ultimo punto, riflessione morale e allegoria religiosa convergono: l'apocalisse finale, infatti, non è solo la punizione inflitta a chi ha rigettato o semplicemente non ha saputo riconoscere il divino (Tom è anche simbolo dell'intelletto umano, incapace di cogliere la trascendenza); essa è anche il frutto di una precisa scelta etica di Grace, per la quale perdonare significa accogliere le ragioni degli altri (di nuovo il tema dell'accettazione) ma anche farsene in qualche modo complici e potenziali emuli. Vendetta e distruzione sono l'unica uscita dal vicolo cieco. E tra le macerie della cittadina, l’ultima scena del film si concentra sul cane (dog) l’unico al quale è stata Grace stessa a fare un torto e l’unico a essere risparmiato nel massacro finale. Ed è proprio la scritta “dog” a comparire, esatto contrario di “God” cioè Dio; e per l’appunto Dogville può considerarsi la perfetta antitesi della “Città di Dio” teorizzata da Sant’Agostino. Ovviamente, a chi ha proposto queste interpretazioni (facendo notare come “dog” ricordi anche Dogma), il regista ha risposto “semplicemente” che l’idea di Dogville nasce in relazione alla idea primaria di un posto ove si distruggono le persone:

Io e Thomas Vinteberg avevamo pensato ai campi di concentramento e Thomas aveva una teoria: la cosa più importante era che i prigionieri dovessero essere tramutati in animali. Sarebbe più facile per tutti – più facile per i detenuti, più facile per le guardie. Così mi disse “Perché non chiamiamo la cittadina Dogville?” e fu così che cominciò. Sarebbe stato più corretto chiamarla “Dogsville”, ma mi piaceva quel piccolo errore [4]http://objectif83.splinder.com/ - _ftn4.

In definitiva, un luogo che può benissimo essere universalizzato e vissuto da esseri umani non particolari, bensì universali. Tuttavia non può nemmeno essere tralasciata la figura femminile di Grace, ennesima martire vontrierana che rema contro le “onde”. Essendo una donna è automaticamente foriera di una seduzione che passa attraverso il corpo e diventa oggetto di odio da parte delle altre donne e di volontà di possesso da parte degli uomini. Grace diventa l’oggetto estraneo ridotto all’impotenza e importato solo a questa condizione, la distanza tra lei e gli altri personaggi è infinita, da una parte c’è lei esausta e senza più volontà che ancora si interroga su ciò che è giusto e ciò che non lo è, dall’altra il gruppo che si fa forte dell’unione ritrovata in nome della difesa contro la novità pericolosa. La rottura con le proprie radici, con l’ambiente che l’ha fatta nascere e formata e il percorso di conoscenza del Sé sono dolorosi, comportano la solitudine e la continua messa in discussione di sé stessi.
Un ultimo cenno è riservato alla voce narrante che accompagna diverse sequenze del film creando un’area romanzesca e saccente:

La voce fuori campo serve a fare risparmiare agli attori una recitazione troppo veristica, che in un apologo negativo come questo non sarebbe credibile; da notare che quasi tutte le scene, se recitate interamente, sarebbero piuttosto banali o addirittura noiose, come le discussioni a cui si fa cenno, quelle in chiesa o nelle case, che sarebbero intollerabili in stile realistico, ma così, raccontate e riassunte dal narratore, mentre gli attori fanno pura e semplice mimica, nella distanza creata dall'immaginazione diventano credibili e addirittura drammatiche. Il testo diviso fra parole e immagini, dove gli attori spesso sono solo icone, figure illustrative, mentre la storia è a carico di un narratore esterno, riporta il cinema ai suoi valori primitivi, quelli visivi, e ricorda i migliori film di Truffaut (Jules et Jim, Le due inglesi) oppure di Kubrick (Barry Lyndon) [5] http://objectif83.splinder.com/ - _ftn5.

E che Von Trier si sia lasciato ispirare da Barry Lyndon è cosa molto probabile, considerando che quest’ultimo è un film che il regista danese apprezza molto, soprattutto per quell’aura di incommensurabile monumentalità che trasmette, per quell’atmosfera di grandeur (dietro cui tuttavia si cela una certa ridicolizzazione). E anche la scelta di suddividere Dogville in parti/capitoli (scritte bianche su fondo nero), quasi a romanzare la vicenda, è un espediente ritrovabile nel film di Kubrick. E che ricorda anche le dodici “tavole” di Godard in Questa è la mia vita.

NOTE:
1) http://objectif83.splinder.com/ - _ftnref1Giorgio, Mauro F., Dogville (recensione), «Cinemania», in www.ondarock.it
2) http://objectif83.splinder.com/ - _ftnref2Trier, Lars Von, in Exterminating Angel , «Filmmaker – The Magazine of indipendent film», inverno 2004
3) http://objectif83.splinder.com/ - _ftnref3Trier, Lars Von, in Lars Von Trier/Paul Thomas Anderson, «Black Book Magazine», inverno 2004
4) http://objectif83.splinder.com/ - _ftnref4Trier, Lars Von, in Exterminating Angel, «Filmmaker - The magazine of indipendent film», inverno 2004
5) http://objectif83.splinder.com/ - _ftnref5Bernardi, Sandro, Considerazioni su Dogville e Lars Von Trier, in www.drammaturgia.it

 

LA RECENSIONE di KMX

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10.11.2003

 


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