Come ormai tutti sanno, si tratta del remake “compresso” del ciclo
hongkonghese di Infernal Affairs,
passato attraverso tre capitoli dritto nel cuore di moltissimi appassionati
di cinema asiatico (e non).
Ogni raffronto col bilancino in mano di matrice e copia è più che mai
inutile e da evitare, in questo caso. Diciamocelo: ci troviamo davanti a una
storia prettamente occidentale, ossessivamente cattolica, e di rimando,
perciò, molto molto irlandese. Una simmetria schiacciante tra Damon,
criminale di ghiaccio brillantemente infiltrato nella polizia, e Di Caprio,
poliziotto “impuro” infiltratosi egregiamente nelle file della malavita;
simmetria riverberata anche ai piani alti, tra il megaboss Jack Nicholson in
perenne cerca di figli putativi e un Martin Sheen capo della polizia e
“padre” per eccellenza. Colpa e coscienza, ordine e trasgressione, si
abbracciano inestricabilmente.
Altro errore da evitare: raffrontare
The Departed alle scatenate girandole di
Goodfellas e
Casinò. Certamente, il
barocchismo sfrenato e compiaciuto dello stile del film viene dritto da
quelle opere, ma ha una ragion d'essere diversa. Non si tratta più di
correre fianco a fianco con il diavolo e con la sua accattivante voce over
alla cui retorica il film vendeva l'anima. Si tratta invece di
materializzare nello stile il compiacimento “amorale” di vedere vanificata
la sottile linea di demarcazione tra “bene e male” (per semplificare), e
danzare con la macchina da presa sull'orlo di questo abisso tendendosi
all'estremo, cioè fino al capovolgimento finale.
Ovvero: laddove ci si aspetterebbe lo scontro epico tra Damon e Di Caprio,
bene vs male, Di Caprio muore per una pallottola vagante, il
pathos si sfiata fino ad azzerarsi e lascia spazio a una glaciale
ragnatela di eventi, un freddissimo regolamento di conti entro cui lo stesso
Damon nell'ultima scena finirà triturato. Una rivoluzione copernicana
dell'assetto del film (preparata poco prima dall'anticipazione significativa
che è la morte in sordina di Nicholson, cui Damon non concede un briciolo di
afflato patetico, ma lo schiaccia praticamente come uno scarafaggio) che
corrisponde nientemeno che all'avvicendarsi fatale di Morale ed Etica (già
centrale per esempio in Gangs of New
York). La Morale, che è tradizionalmente un principio soggettivo, si
incarna appieno nello scatenato impazzare della soggettività registica a
briglia sciolta, “amorale” solo apparentemente, perché si basa appunto sulle
ceneri dell'asse bene/male comunque imprescindibile; al culmine di questa
prassi, irrompe di colpo l'Etica, che è un principio oggettivo di
regolamento sociale, sovrapponibile in pieno col freddo gioco di dare/avere
delle vendette che chiudono silenziosamente il film.
Scorsese insomma ci illude che l'amoralità sia quella gioiosa girandola che
si beffa del Bene e del Male fino quasi alla fine del film, solo per
buttarci addosso il contrario vero della morale (che in sé e per sé è
squisitamente “cattolica”), che è il freddo regno deterministico dell'etica.
E lega le due cose in modo talmente stretto che non ci è dato di poter
scegliere dove meglio stare (Damon o Di Caprio? Etica o Morale?):
l'identificazione diventa impossibile, la soggettività deraglia, e per
questo verso la fine è direttamente convocato da alcune inequivocabili
citazioni (la doccia) Psycho,
che è il film dell'identificazione impossibile per eccellenza.
Voto: 30/30
02:12:2006 |