DA ZERO A DIECI
di Luciano Ligabue
con Stefano Pesce, Elisabetta Cavallotti e Fabrizia Sacchi


Da zero a dieci? Sei meno meno. Come il voto che il protagonista assegna alla sua vita da copione e che ci trova tutti d'accordo. Imbevuto di citazioni fino alla nausea e infiorettato di luoghi comuni <- Rimini è come il blues…dentro c'è tutto-> il secondo, a questo punto di un probabile terzo, lungometraggio di Luciano Ligabue inizia come finisce RADIOFRECCIA, con la solita sciorinata di "fighe" parole bagnate in proverbiale salsa correggiesca, pronunciate fuori campo da Giove, fratello Benassi del premorto Ivan e suonano più o meno così: "Coi voti cominciano appena nasci. Siamo qui per prendere e dare voti. Non c'è niente di male. Se non c'è niente di male a smettere di fare quello che vuoi fare per fare solo quello che ti fa avere buoni voti." Mmmm, la morale è condensata in un week-end dov'è d'obbligo fare quello che non si è mai stati liberi di fare, freghi dei voti che gli altri si divertono a dare. Siamo a Rimini, anni ruspanti della nostra generazione, giro di vite al massimo volume. Quattro uomini alla soglia dei quaranta al recupero dei vent'anni ruggenti, quattro donne complici in amore e zingarate. Professione, stato civile e livello di vita; questo solo interessa o forse questo solo deve bastare. Tra cose non dette e pagine bianche ancora da scrivere, la combriccola si sfoga come meglio può. Buoni di un buonismo quasi a-cinematografico, dove l'antagonista sta ancora in fila per il casting, Giove, Libero, Biccio e Baygon aprono i cancelli della memoria e si fanno un giro per il vialetto dei sogni. Ma sebbene tutto passi o sia già passato, rimane nemmeno troppo sullo sfondo l'ingombrante quesito che si sarebbe posto anni prima il Douglas Coupland di Generazione X: stiamo ancora passando? Qualcuno si accorge di noi mentre stiamo passando? Per Libero, un nome in lotta con la dialisi quotidiana e in attesa del trapianto, lo sguardo come il tempo si è fermato con le lancette dell'orologio della Stazione di Bologna quel 2 agosto dell'80. Mirco, l'altro compagno di ventura, non c'è più. Nella proiezione sgranata di una fermo immagine b/n si ritaglia la sagoma di un'asciutta commozione, tragicamente capace di raggiungere l'amico scomparso e riprendere il dialogo interrotto. Nella storia, abbastanza morale ma scevra di moralismi, trasudano le emozioni e il respiro si fa universale, fino a sganciarsi con la vicenda che il Liga ammette, è solo una storia come tante, un ricordo (se pur romanzato) specifico. Il cantante, perché rimane soprattutto questo, gira per tre mesi senza aiuto registi con un ritmo da videoclip, con tante, ma tante pose polaroid. E' un album di famiglia animato, un po' sporco come l'italiano parlato nel film, pregno di salmastro e terra di collina, a pagine fintamente logoro come il ¾ in pelle indossato dal premio Donatello. Nella corsa dei protagonisti verso il bagno di applausi disperatamente cercati (l'uno come bluesman, l'altro come Dragquuen …) c'è la smagliante vena giovanilistica che come un bel bicchiere di San Giovese scuote la vita, almeno di un week-end, e, questo devo riconoscerlo, senza cercare per forza il film generazionale. Anche la morte può sembrare un topos maledetto alla James Dean, tuttavia i nostri sanguigni ragazzotti di provincia sono assai lontani dall'assomigliare all'eroe e sul finire della pellicola il tono crepuscolare diviene speculare alla rimonta della vita, che sale, sale e va avanti nonostante tutto.


Voto: 18/30

 

Sandra SALVATO
06 - 02 - 02


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