DANCER IN THE DARK
di Lars Von Trier
con Björk, Catherine Deneuve, David Morse e Peter Stormare



E finalmente abbiamo visto DANCER IN THE DARK! La curiosità era francamente tanta, dal momento che, oltre alla Palma d'oro, moltissimi gli avevano assegnato i galloni del capolavoro, termine del quale spesso si abusa, ma che resta pur sempre impegnativo. L'aspettativa nasceva poi dalla voglia di mutare opinione su Lars Von Trier - autore che, fatta eccezione per IL REGNO, non abbiamo mai amato (e men che meno dogme 95) - nella certezza che l'intervento di autori come il regista di IDIOTI, capaci indubbiamente di un deciso scarto rispetto al resto della produzione, sia assolutamente necessaria per il futuro del cinema, non solo europeo.
Purtroppo non ci riesce ancora di dichiarare pieno amore al "genio" danese, per quanto DANCER IN THE DARK sia senza dubbio la sua migliore prova dai tempi di EUROPA. Essenzialmente perché il suo film è costruito a partire da una grande idea, che poi in parte viene abbandonata a se stessa; perché la forza emotiva del soggetto non ci sembra sufficiente a coprire alcune lacune a livello di narrazione e perché Von Trier si preoccupa di spiegare troppe volte quello che, già di per sé, grazie alle immagini ma non solo, è più che chiaro.
Il musical è per antonomasia il genere cinematografico "senza pensieri", quello che non solleva alcun tipo di questione, che riempie gli spazi e i volumi più di qualsiasi altro e che, al disopra di tutto, può dirsi quasi immune alla schiavitù del dialogo. In altre parole, potremmo definirlo il più puro tra i generi cinematografici, nel quale l'immagine brilla di luce propria perché parla da sola, dando ampio spazio al movimento. L'intuizione - ottima - di Von Trier coincide con l'innestare lo spirito e le coreografie del musical tra gli episodi di una tra le vicende più cupe viste al cinema negli ultimi anni. Il musical equivale, per quanto si è detto sopra, al sogno, alla fuga dalla realtà di tutti i giorni, al momentaneo rifugio; momentaneo perché prima o poi devono giungere i titoli di coda. Non per Selma (Björk) che, quando, giovane cecoslovacca, andava al cinema, scappava prima dell'ultima canzone, così la magia non avrebbe avuto fine. E ora, che è emigrata negli USA, è povera e viaggia a lunghi passi verso la cecità, cerca anche nel meno armonico dei frastuoni, quello della fabbrica dove lavora, le tracce di una melodia. La sua mente viaggia, fugge, sente la musica dove non c'è e cambia i connotati di una realtà, i cui attori divengono ballerini sempre pronti a sostenere Selma e i suoi desideri. E anche Von Trier in coincidenza con queste coreografie si ritaglia momenti di fuga dal suo dogma para-realistico, abbandonando la camera a mano, le riprese tremolanti, l'immagine sgranata: i colori, infatti, sono subito più vivi, il sonoro migliore, la musica di contorno dominante, l'inquadratura fissa. Come a dire: la perfezione cinematografica che è mimesi della realtà ma che, per l'antinomia che è alla base del cinema, denuncia in questo modo la propria componente di artificialità. Ciò che sembra più vero è, in realtà, frutto di una maggiore quantità di finzione, per cui diviene proiezione dei sogni.
Fino a qui tutto funziona. Poi l'operazione si ripete senza un adeguato coefficiente di innovazione: ogni qual volta Björk si trova di fronte a quello che le sembra essere un punto di non ritorno, il ricorso alla musica avviene puntuale. L'idea che ci siamo fatti - nonostante i singoli numeri siano di grande forza, soprattutto in ragione della deviazione emotiva che vengono a creare con la situazione d'origine - è di un eccessivo insistere su di una soluzione narrativa che, per quanto originale (e sicuramente geniale) di natura, appare, a breve, prevedibile, perdendo così di forza.
La visione di DANCER IN THE DARK, purtroppo, ci ha riportato alla memoria anche le sensazioni e le impressioni che, nel 1996, ci trasmise LE ONDE DEL DESTINO. Le due opere hanno, infatti, più di una cosa in comune. Entrambe puntano decisamente e senza remore sulle corde dell'emozione, un'emozione pura, primigenia, fino alle lacrime. Perché le due vicende hanno in sé qualcosa di estremo, che non ammette deviazioni: narrano del sacrificio di sé per gli altri, per un altro. Nel caso in questione tutta la vita di Selma è in ragione del figlio, condannato anch'egli, prima o poi, alla cecità; i soldi raccolti dalla madre - che preferirà morire piuttosto che negarglieli - potranno però salvarlo. Una storia decisamente forte, forse troppo forte: una parabola sull'amore che, data la recente conversione al cristianesimo del regista, non fatica a palesare le proprie origini. Ma questo non basta a fare un capolavoro: nessuno vuole negare che il film abbia un impatto emozionale incredibilmente potente, che la vicenda di Selma abbia il fascino romantico dell'utopia e che, dal cinema, si possa uscire scossi. E' forte però il sospetto che, così facendo, Von Trier si mascheri, punti troppo sulle corde della commozione, dimenticando comunque di aver a che fare con un film che, in quanto tale, necessita di un ritmo e di una qualche coerenza interna, per non risultare comunque noioso. Un po' come il Benigni de LA VITA E' BELLA: non si posso discutere i contenuti, ma bisogna andare oltre e superarne la suggestione. Ci sembra infatti chiaro come in molti punti la pellicola perda di ritmo e - ci ripetiamo volutamente - appaia prevedibile anche nelle soluzioni apparentemente meno scontate, compreso il finale.
Siamo convinti che se dicessimo queste cose a Von Trier o a qualcuno dei suoi fan più sfegatati, una risposta ci sarebbe sempre: la mancanza di ritmo è voluta per maggiore adesione alle realtà; lo stesso dicasi per il ripetersi dell'associazione sogno/musical; per quanto riguarda la spinta sul pedale del melodramma, potrebbe trattarsi di una provocazione voluta; così alcune banalità, per non parlare della didascalia finale (che bisogno c'era di insistere ancora su quella questione, quanto già i dialoghi la portano più volte alla luce? Così la puzza di didascalia diviene davvero intensa…). Però sarebbe troppo comodo. E se il regista fosse stato qualcun altro, avremmo perdonato comunque questo scivolamento nel melodramma, o le invenzioni non solo dogmatiche di Von Trier bastano a fare di DANCER IN THE DARK un ottimo film?
Se non un capolavoro, è certo tuttavia che DANCER IN THE DARK, e di riflesso Von Trier, guadagnano moltissimi punti grazie all'interpretazione (e alla voce) di Björk, la formidabile quanto alternativa cantante islandese, bellissima in tutte le sue imperfezioni. Come già accaduto con Emily Watson nel citato LE ONDE DEL DESTINO, il padre di dogme 95 si conferma infatti uno straordinario scopritore di talenti interpretativi femminili; donne capaci, (forse) in linea con il suo progetto, di mangiarsi da sole l'attenzione dello spettatore e gran parte del film.

Voto: 26/30

Andrea DE CANDIDO
17 - 08 - 01


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