CHI LO SA?
di Jacques Rivette
con Jeanne Balibar e Sergio Castellitto



Il film dell'ormai ultrasettantenne regista francese vive di una armonia ludica e cordiale dove si mescolano in un intreccio ingarbugliato e tautologico svariati strati di realtà e finzione. La storia si sviluppa tra le strade, le case e i palcoscenici di Parigi, dove una compagnia teatrale italiana mette in scena in lingua originale il dramma pirandelliano Come tu mi vuoi. Benchè il regista abbia negato una qualche corrispondenza biunivoca tra la finzione filmica e la meta-finzione teatrale ("La pièce di Pirandello va avanti per conto suo: qui non c'è un sistematico gioco di rimandi come in altri film") appare implicito il rimando ad un sostrato comune su cui soggiacciono l'opera del maestro siciliano e il film di Rivette: e cioè l'universo dell'indeterminato e dell'aleatorio, quel luogo informe e inconsistente, dietro le convenzioni del vivere sociale, dove si dissipano le certezze della identità e dell'amore. Rivette allestisce una galleria di personaggi generosi nella loro espressività [anche troppo, come è il caso di Castellito la cui recitazione in alcune circostanze deborda negli eccessi di una teatralità basso-latina] delicatamente e gradevolmente grottesca, avvolti in una alea di rarefazione e straniamento in cui la rappresentazione filmica si dilata a dismisura [non soltanto in termini di minuti] e le figure procedono per inerzia nelle quasi tre ore di film totalmente in balìa dei capricci del caso e dei propri sentimenti, rincorrendo il disordine e l'indisciplina di una coralità di passioni che si impongono e si negano senza alcuna logica apparente: Camille guidata da una arcana ispirazione insegue le tracce del suo ex amante e poi si nega al suo morboso desiderio di riavviare il loro amore in una nuova e folle avventura, Ugo si lascia dapprima sedurre dal fascino fresco e sensuale di Do, ma retrocede davanti alla dichiarazione di lei; assai offuscati e nebulosi sono i rapporti tra Do e il suo fratellastro Arthur, e tra quest'ultimo, irriducibile quanto goffo donnaiolo, e Sonia o Camille. I rapporti tra i personaggi sulla scena appaiono avvicendarsi in un procedimento alla deriva di casualità e legami labili, che si sfaldano o cambiano rotta in modo imprevedibile e smaliziato, in una successione articolata e spontanea, costruita su un registro vivace ed elegante di apparente improvvisazione. Nella cornice slabrata della narrazione si inserisce una più o meno evidente attenzione amorevole da parte dell'autore a mostrare dettagli collaterali e suggestivi dei propri personaggi e delle loro storie: la macchina da presa si sofferma indiscreta a raccontare piccoli gesti, smorfie, esibizioni mimiche di corpi che espandono il proprio campo d'azione scaricando all'esterno le turbolenze indecifrabili dell'universo interiore. E la narranzione si concede a deviazioni nel surreale, come nel pittoresco duello tra Ugo e Piero, o nella impostazione di una trama che nasce dalla prolificazione partenogenetica di reticolati amorosi inverosimilmente e volutamente artificiosi, che vanno poi a confluire sul palcoscenico di una sgangherata rappresentazione teatrale nel finale, estrema e definitiva ibridizzazione di cinema, teatro e vita raccontata dall'arte. Il cinema di Rivette riconferma il carattere elegante e sottilmente ludico con cui sa vivisezionare le voragini esistenziali dell'uomo moderno [Heidegger, su cui studia Pierre, forse non è citato a caso nel film] e la lucidità con la quale sa predisporre un protocollo narrativo teso alla destrutturazione degli schemi classici; inoltre, c'è da dire, un'opera di un maestro del suo calibro come di qualunque altro autore della sua scuola va accolto sempre con doveroso rispetto, anche se gli anni sessanta e la Nouvelle Vague francese sono lontani ed è ormai tempo, forse, di costruire del nuovo.

Voto: 26/30

Mirco GALIE'
21 - 07 - 02


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