IL CERCHIO
di Jafar Panahi



Arezou, in persiano, significa speranza; Solmaz sta per eterno; Ferestehteh si traduce angelo, mentre Margess vuol dire fiore, e ciascun nome connota le donne dello splendido film di Jafar Panahi, IL CERCHIO, che oggi ha commosso i giornalisti durante la proiezione per la stampa.
Pochi di noi erano memori dei premi ottenuti dal regista negli ultimi anni: la Camera d' Or come miglior esordiente al festival di Cannes del 1995 e il Pardo d'oro 1997 al festival di Locarno, rispettivamente con IL PALLONCINO BIANCO e LO SPECCHIO.
Circolare è la struttura formale del film, con un continuo scambio tra le protagoniste, che si passano il testimone di una condizione sociale disperata, assai simile a quella delle donne afgane, costrette a combattere, ormai, anche per una sopravvivenza "anagrafico-burocratica", in un mondo che le annulla da ogni contesto, sia quello scolastico o lavorativo, semplicemente costringendole a vivere nel buio dei loro chador e di una reclusione che ne azzera immagine, corpo, voce.
Panahi mette in moto un delicato movimento narrativo, in base al quale, da Arezou a Margess, si snodano vicende diverse, prima accennate, poi accompagnate e infine abbandonate nel momento in cui si comincia a parlare di un altro doloroso caso. Questo senso del "lasciare", questo cerchio delle sofferenze incompiute rende con straordinario effetto poetico la natura infinita del dolore nel paese degli ayatollah, quasi che da una disgrazia ne nasca immediatamente un'altra; ma nasce e si rafforza, per quanto clandestina, anche la solidarietà femminile e un tipo di complicità altrove o in altri tempi patrimonio esclusivo del mondo maschile e di contesti "politicizzati", mentre qui siamo dalle parti di una sorta di "partito del dolore" cui tutte, indistintamente sono iscritte.
Si va dalla disperazione di Ferestehteh, colpevole di essere incinta di un'indesiderata femmina e quindi malvista dalla famiglia del marito, alle peripezie di tre carcerate in fuga, tra le quali c'è chi deve abortire fuori dalla prigione perché doppiamente colpevole di qualche piccolo reato e del fatto d'essere incinta di un uomo che non era suo marito, ma solo un prigioniero poi giustiziato; e c'è la giovane, indifesa Arezou, nemmeno studentessa, costretta a ogni sotterfugio per riuscire a prendere una corriera che dovrebbe portarla lontana dalla grande e avversa città. Senza tessere scolastiche, certificato di matrimonio o semplice accompagnatore maschio, noi sei nulla e nessuno ti aiuta per strada, dove ti si nota solo per l'anomala condizione di donna sola, cioè di soggetto sociale assente.
Il registro scelto dall' autore è quello di un cinema che distribuisce le proprie scelte stilistiche attorno a pochi e solidi punti fermi: scandaglio serrato ma non frenetico delle psicologie femminili, specie nell'osservazione attenta di visi sui quali il susseguirsi di negazioni e privazioni, o semplicemente di cattive notizie, disegna una geografia di piccoli movimenti della bocca o degli occhi, che costruiscono il lessico delicato e malinconico del film.
E' straordinario il modo in cui queste piccole anime erranti, composte in un presepe capace di muoversi e di parlare, per quanto sottovoce, vanno disponendosi sulla giostra degli eventi circolari, minuscole madonnine nere che appaiono e scompaiono lasciando tracce, per così dire, angeliche più che violenti gesti di protesta, che nuocerebbero alla perfezione formale del tutto.
Ma, come detto, non è solo una scelta di regia: la continuità, il passarsi il testimone servono anche ad annullare il rischio di raccontare storie troppo personali o quello di affezionarsi a una piuttosto che cogliere l'idea di un martirio comune a tutte, sorelle identiche e senza volto.
Non vediamo le differenze, in nome di una pietas necessaria, tra chi è solo vittima e chi, come una delle protagoniste, sembra invece peccare quando tenta di abbandonare per l'ennesima volta la piccola figlia nelle strade di città: capiamo che, così facendo, tenta di garantirle un futuro migliore, magari accolta da famiglie ricche e più protette dagli strali della [in]giustizia sociale.
Se sei donna e ti sei anche macchiata di una generica, vaga colpa legata a qualche piccolo reato, cadono attorno a te le ultime forme di protezione e puoi abbandonare, magari con lieve gesto circolare, questo mondo.

Voto: 30/30

Gabriele FRANCIONI
17 - 08 - 01


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