LA CASA DELLA GIOIA
di Terence Davies
con Gilliam Anderson, Eric Stolz,
Dan Akroyd ed Elizabeth McGovern



Atmosfere ricercate e immagini raffinate ma senza trascurare la sostanza. C'è questo doppio canale ne LA CASA DELLA GIOIA: da una parte la ricerca estetica delle forme nei personaggi, negli interni, negli oggetti; e dall'altra il senso profondo di una storia che vuole raccontare la società di un'epoca (quella newyorchese dei primi del '900) dal punto di vista di una donna che non è riuscita ad inserirsi nelle consuetudini che la regolano.
Lily Bart (Gillian Anderson) è una signora che appartiene all'alta borghesia, ma che si ritrova costretta, a causa di debiti di gioco, a cercare un matrimonio di convenienza per non essere esclusa da quella società a cui appartiene e che lei ama, ma che ha delle regole ben precise. Però maldestramente si innamora di un uomo (Eric Stolz) che ha tutte le doti tranne la ricchezza: è bello, è intelligente, è affascinante e la ama. In questa perenne contraddizione, tra il desiderio di assecondare quel che prova e la paura di ritrovarsi fuori dall'unico mondo che conosce, Lily fa delle scelte sbagliate, si fida di persone che la tradiscono, senza mai uscire dal turbine perverso della "cosa giusta al momento sbagliato". E tutto il film è pervaso da questo contrasto tra l'ingenuità e l'impotenza di lei e la compatta e cinica consapevolezza degli altri personaggi, ben inseriti nel sistema di una società regolata dalla formalità e dall'apparenza, tanto da non riuscire a sfuggire ai loro ruoli nemmeno sulla spinta del desiderio di aiutarla. La stessa Lily soccombe all'evidenza della sua inadeguatezza senza trovare mai la forza di ribellarsi al proprio mondo. E questa mancanza di critica nei confronti di un ambiente che la rifiuta, rende ancora più vera e più tragica la sua sofferenza e perdona anche le sue scelte meschine, dettate dal terrore crescente di ritrovarsi esclusa.
Il film è tratto dall'omonimo romanzo di Edith Wharton (la stessa de L'ETA' DELL'INNOCENZA), un'autrice che conosce bene il mondo che racconta, avendolo lei stessa vissuto. Ed il regista (Terence Davies) riesce a cogliere e a raffigurare in modo elegante e raffinato il senso profondo del disagio che sta alla base della storia e che nasce dalla negazione della libertà di mostrarsi per quello che si è. Per ottenere ciò usa immagini finite, che si aprono e si chiudono come tanti racconti separati e che contribuiscono a dare al film una fredda immobilità. Questa scelta narrativa rende ancora più evidente il contrasto tra le regole estetiche e l'inadeguatezza di un personaggio che non trova un posto nell'equilibrio della composizione.
Anche l'uso dilatato del tempo contribuisce a dare un'idea di rigidità e sottolinea l'importanza del ritmo, nel senso di lasciare fuori chi sfugge ad una lentezza imposta dalla forma.
Il tema trattato non è nuovo né per il cinema né per la letteratura, ma il rischio del "già detto" è scampato dalla scelta di descrivere senza schierarsi, non dando mai ai personaggi una connotazione totalmente negativa o positiva. Quello che viene narrato è un mondo, e come tale difficile da giudicare nella sua complessità e che per questo si può solo raccontare con rigore e rispetto.

Voto: 27/30

Francesca MANFRONI
17 - 08 - 01


::: altre recensioni :::