A BITTERSWEET LIFE

di Kim Jee-Woon
Con Byung-hun Lee, Jeong-min Hwang

di Gabriele FRANCIONI

 

“There’s no way back”, ci ammonisce il sito ufficiale di A BITTERSWEET LIFE.

"Irreversible", si ruggisce un po' più avanti.

Evidentemente ci si riferisce al concetto di vendetta, ormai linea guida di mezzo cinema mondiale: perlomeno, quello di qualità.

Vendetta è proprio l'irreversibilità non-cristiana (non porgere l'altra guancia) innescata da una molteplicità di eventi, ma soprattutto la predisposizione alla non-dialettica di un universo perennemente coi nervi a fior di pelle, talmente pieno di etnie affette da cabin fever, da dover ricorrere all'istintuale e liberatoria giustizia sommaria che la vengeance garantisce.

Ciò significa che il Lontano Oriente e il senso dell'onore di una cultura post-occidentalizzata, in lotta tra tradizione e tecnologia, fanno tendenza.

KILL BILL, che riprendeva molto Fukasaku Kinji, ha sicuramente reso celluloide qualcosa che è fatto di carne-sangue-ossa, cartoonizzando con arte sublime le stesse braccia tagliate in LOTTA SENZA CODICE D'ONORE.

Da qui il dibattito sulla necessità di tanta violenza al cinema e il solito giustificatissimo controbattere: guardatevi i telegiornali di guerra etc.

Sociologicamente ed eticamente parlando, sia chiaro, non ha senso discutere nemmeno sul perché il cinema orientale continui a concedere molta più visibilità-rispetto-tolleranza alle varie forme di yakuza di quanto succeda ai mafiosi nostrani (drammaticamente poco trendy, tanto che fortunatamente il solo Scorsese riesce a renderli tollerabilmente simpatici, anche perché li investe di una primordialità autodifensiva atemporale).

Il dato di fatto è che l'uso della V per Vendetta va molto di moda, il che, alla resa dei conti, significa che l'orientalizzazione di certe espressioni culturali dominanti corre in parallelo a una non più rintracciabile centralità di visioni catto/cristiano-centriche nel fare arte.

Stupisce, quindi, che i Cahiers - Francia, Illuminismo etc - si sorprendano della fascinazione agita dalle recenti figure di villains sul pubblico cinematografico (dopo ben più di mezzo secolo di noir, gangster-movie, caper-movie, poliziesco, tarantinismo etc).

 

“(…)Cette combinaison contre nature qui fait aimer les bandits au cinéma” (Jean-Philippe Tessé).

 

I Cahiers du cinema, più in generale, non hanno amato il film, inserendolo indebitamente tra i prodotti di medio livello del cinema coreano colpevole, a loro giudizio, di mettere in scena la citata violenza di design, estetizzante e gratuita (“(…)imagerie des voyous Armani”).

Il rischio, in questi anni concitatamente orientali, è chiaramente quello di generalizzare, mentre occorrerebbe scavare nelle biografie di ciascuno (il buon TWO SISTERS e un discreto episodio di THREE EXTREMES precedevano dignitosamente il nuovo, ottimo film di Kim Jee-Won, altrimenti Ji-Woon Kim).

L'accostamento denigrativo della rivista francese a Park Chan Wook, tra l'altro, suonerebbe dalle nostre parti come un riconoscimento di grandezza assoluta!

Niente di tutto ciò, per chi si ostina a dedicare pagine su pagine agli eticamente corretti CAIMANO e BUBBLE….

Al limite, è sulla consistenza del desiderio di vendetta che si potrebbe ragionare in termini di traduzione cinematografica: molti avevano notato come la polpa che si rivelava alla fine di OLD BOY lasciava interdetto qualcuno perché debole, improbabile e poco comprensibile da una mente occidentale e, di riflesso, gettava ombre sull'intera impalcatura narrativa del film, articolata e stratificata, a loro vedere, in maniera ingiustificata per una simile conclusione  piena di effetti senza causa.

 

Nonostante il fatto che anche noi abbiamo amato maggiormente LADY VENGEANCE (pirotecnico in quanto a piani narrativi,intersezioni temporali fatte di flashback e flashforward, oltre che di meravigliosi e significanti inserti visivi e, voilà, rinforzato da una premessa condivisibile da tutti), sia il magistrale OLD BOY che questo ottimo A BITTERSWEET LIFE ci appaiono come esempi di  straordinaria visionarietà controllata, di strutturata e affascinante costruzione narrativa, di intensa recitazione, di ritmo.

 

Il meglio del cinema contemporaneo, capace di far impallidire quasi tutte le altre infiacchite produzioni nazionali (immaginate una serata in cui dover scegliere tra A BITTERSWEET LIFE e cose tipo VERSO IL SUD, 10 CANOE e LA DIGNITà DEGLI ULTIMI...), con buona pace dei moralisti e dei maniaci dell'imprescindibilità di una qualche plausibilità narrativa.

Come scegliere tra Savinio e Guttuso, se non fosse chiaro il concetto.

Meno male che, anche dove non te li aspetti, continuano la loro opera pro-Oriente personaggi benemeriti come l'impareggiabile P.M. Bocchi.

In definitiva, vorremmo sempre poter seguire sullo schermo le inutili non condivisibili peripezie di cento Sun-Woo: ronin senza spada, solitari giustizieri seppelliti vivi, ridotti a volontà residuali ma strenue (come Beatrix Kiddo), capaci di trasformarsi in un'idea ormai quasi de-corporeizzata, incrollabilmente resistenziale, e accompagnarli nella loro truculenta punizione grondante sangue con la sana animosità dello spettatore-tifoso.

Insomma, siamo tra quelli che amano Damien Hirst e Jenny Holzer, Mario Merz e Jannis Kounellis, Bill Viola e Nam June Paik, Ko Murobushi, Angelin Preljocaj e Beijing Modern Dance Company; siamo per l'arte contemporanea e le avanguardie, per il sovvertimento di ogni pacificata tradizione, per la trasversalità e l'incrocio dei sensi che ci sono stati dati e contro la mediocrità di chi nasce-vive-muore in difesa di un opaco ideologismo sempre alla ricerca di fragili appigli che niente hanno a che vedere con l'Arte.

 

Abbiamo vinto tutte le elezioni possibili e stanato tutti gli squallidi impostori: quando andiamo al cinema, però, cerchiamo di lasciar stare i messaggi e la politica.

Viva l'Oriente Lontano e Viva l'Arte per l'Arte.

 

Voto: 30/30

29/06/2006

A BITTERSWEET LIFE
Regia: Kim Jee-woon
Anno: 2005
Nazione: Corea del Sud
Durata: 120'
Data uscita in Italia: 12:05:2006
Genere: Thriller