BOWLING A COLUMBINE
Scritto, prodotto e diretto da Michael Moore
Canada/USA 2002



Michael Moore, 48enne regista del Michigan, già autore di film controtendenza come "Roger & Me" e "The Big One" contro la globalizzazione e contro le multinazionali, con questo coraggiosissimo film-documentario ci conduce in un viaggio alla scoperta dell'altra notizia, quella che ormai TV e media non ci forniscono più, quella che mette l'individuo dotato di ragione e coscienza civica di fronte ad eventi tragici, senza il gusto sadico di fare del dolore un show televisivo e senza voler a tutti i costi prendere posizioni di fronte agli avvenimenti, ma costringendo alla riflessione e alla ricerca della verità oltre la sensazionalismo dell'evento.
Partendo dalla strage avvenuta presso la Columbine School in Colorado nell'aprile del 99, ad opera di due suoi studenti, Moore solleva con forza il problema della diffusione delle armi tra i civili negli Stati Uniti, fornendo cifre che inducono a fare proporzioni tra numero di abitanti e numero di armi e di omicidi che ogni anno si verificano negli States. Forse tutto ciò dipende dalla facilità con cui è possibile procurarsele? Chiede il regista ai suoi intervistati. Non ci sono negli Stati Uniti misure restrittive per il possesso e l'acquisto di armi, fatta eccezione per coloro che soffrono di disturbi psichici, mentre paradossalmente non impedisce l'acquisto di armi l'avere precedenti criminali ma addirittura è considerato dovere di un americano responsabile avere un'arma in casa.
Senza fare del facile moralismo e senza prendere posizioni a priori, Moore ci mostra con intelligenza e ironia una civiltà americana completamente in balia della paura così ben alimentata dai mezzi di informazione: la paura dell'uomo nero - da sempre criminalizzato e associato a stereotipi negativi - la paura degli attacchi armati e terroristici - che con un breve ma efficace riassunto degli interventi militari americani (Vietnam, Serbia, Nicaragua, Cile, e molti altri) ci dimostra come sia servita a pretesto per compiere una serie lunghissima di stragi - la paura della follia umana - che "costringe" a dormire con una 44 Magnum sotto il cuscino, e così via… Di qui un altro l'interrogativo che Michael Moore pone incessantemente ai suoi interlocutori, vittime o carnefici che siano, da dove ha origine tanta violenza? Nella carrellata delle interviste memorabile quella alla rockstar Marilyn Manson, additato dai più come istigatore al male e alla violenza, che invece sorprende tutti per la sua netta posizione nei confronti di Bush Jr e che alla domanda su cosa avrebbe detto ai ragazzi di Columbine risponde con saggezza "Niente, ascolterei quello che loro hanno da dire, cosa che nessuno ha fatto". Non c'è spazio per il qualunquismo e per il pietismo quando si scende in prima persona per strada ad affrontare la realtà, e così fa Moore andando ad incontrare due ragazzi rimasti gravemente menomati per le ferite riportate nella strage e li convince ad andare direttamente da chi questi proiettili da 9mm, acquistabili anche al supermarket, li ha prodotti e messi in vendita. Il risultato avrà dell'incredibile, dopo un assedio pacifico la casa produttrice si vede costretta a prendere l'impegno di interromperne la produzione e a stabilire dei tempi brevi per il loro ritiro dal commercio. Ancora una volta lo spettatore non può non considerare che se queste battaglie fossero combattute più spesso e con più convinzione qualche vittoria in più si otterrebbe. Questo film, che ha ricevuto il Gran Premio della Giuria al 55° Festival di Cannes e quello del Pubblico a Toronto (dopo che negli Stati Uniti era stato censurato), per il suo potere educativo e comunicativo dovrebbe essere visto da gente di tutte le età ma soprattutto da quei giornalisti che hanno perso completamente di vista il senso del loro mestiere e come un esercito di marionette scendono in campo al servizio di chi la notizia la manipola a seconda dei propri scopi. Vale più di qualsiasi commento il piano sequenza sui cronisti accorsi come sciacalli sulla tragedia di turno - l'uccisione di una bimba di 6 anni da parte di un suo coetaneo - e ridicolmente tutti in fila di fronte alla propria telecamera, attendono il momento in cui indosseranno la solita espressione di circostanza al fine di suscitare commozione per quanto è accaduto e fomentare ancora una volta la paura nel cittadino medio, senza cercare di conoscere cosa invece ha portato a un evento tanto grave (famiglia, scuola, società). Ci pensa lo stesso Moore che a chiusura di due ore di film, in cui non c'è un minuto di banalità o noia, parte all'attacco della vecchia gloria di Hollywood, Charlton Heston, diventato testimonial della N.R.F. (National Rifle Foundation), la più grossa lobby di costruttori di armi americane. Dopo una serie di filmati che lo vedono sui luoghi delle stragi mentre aizza folle di esaltati con il suo macabro credo "solo 5 parole: nelle mie fredde mani morte" e innalza il bazooka come nuovo vessillo dei popoli, Moore gli fa visita nella tranquilla e faraonica villa di Beverly Hills incalzandolo con le solite domande, apparentemente innocue ma che in realtà non danno scampo: non c'è risposta di fronte al perché della violenza e il vecchio divo messo alle strette non sa far altro che voltare le spalle e allontanarsi con la telecamera che lo segue implacabilmente, mostrandocelo sghembo e malfermo. Utilizzando la tecnica documentaristica, scevra di qualsiasi manierismo cinematografico, Moore compone un collage perfetto tra riprese reali con telecamere nascoste nei luoghi delle stragi, che esplodono sullo spettatore con tutta la loro drammatica forza visiva, frammenti di conferenze stampa di Capi di Stato alternate a immagini di operazioni belliche dell'esercito americano, cartoon che diventano cronistoria del popolo afro-americano dalla schiavitù a oggi, spezzoni di servizi andati in onda sulle TV americane dove il black-man è sempre insistentemente associato al mostro di turno, foto dei volti delle vittime e di quelli dei loro carnefici - quasi a mostrarci che non sono poi così diverse -, primi piani sugli sguardi allucinati di giovani e meno giovani che rivelano quasi con orgoglio passate connivenze con gli attentatori, lunghe e silenziose inquadrature su chi il dolore l'ha subito e si trova smarrito in una società che non intende cercare vie alternative alla soluzione dei problemi.

Voto: 30/30 e lode

Maria Prete
27 - 03 - 02


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