Il nuovo film di Paul Verhoeven si presenta come una sorta di epopea privata
ambientata nel drammatico periodo della seconda guerra mondiale. La
protagonista, Ellis, è una donna ebrea coraggiosa e bellissima che per
sfuggire alle persecuzioni naziste e alla morte si ritrova nei panni di una
novella Mata-hari (entrambe olandesi, entrambe con un nome falso, e una
ballerina l’altra cantante…), col compito di fare l’infiltrata in un
quartier generale dei nazisti. Nel corso della sua missione però la
fascinosa intrusa finisce con l’innamorarsi di uno dei capitani nazisti che
è costretta a frequentare, rendendo così il suo compito ancor più difficile
e complesso.
Il film quindi va configurandosi come una vicenda di spionaggio che trova il
suo punto di vista narrativo nei luminosi occhi azzurri della protagonista,
anche se poi, di fatto, le vicende personali di Ellis non vengono
enfatizzate in modo eccessivo, (e fortunatamente verrebbe da dire, poiché
sarebbe stato davvero troppo semplice in un contesto del genere) ma più che
altro, vengono sfruttate come cursore trainante dell’azione, lasciando
perciò uno spazio adeguato allo svolgersi della storia la quale, nonostante
la lunghezza e la forzatura di alcuni escamotage narrativi, è senz’altro il
punto forte della pellicola.
Il regista infatti riesce a tenere vivo l’interesse dello spettatore
evitando fino all’ultimo di sciogliere l’intrico di delazioni e tradimenti
che costituisce l’intreccio del film; al contrario, man mano che la storia
procede, lo rende sempre più fosco e imprevedibile grazie agli sviluppi
sentimentali tra i vari personaggi.
Si tratta in definitiva di un film godibile e non scontato (concede anche
alcuni momenti umoristici), che riesce ad evitare le banalità e che anzi sa
far riflettere sulla labile linea di distinzione che c’è tra vittime e
carnefici; poiché, come dovrebbe già esser noto, a rendere corrotto o
crudele un individuo non è certo la sua appartenenza ad una fazione
piuttosto che ad un’altra, bensì la sua appartenenza al genere umano, genere
per propria natura imperfetto. E probabilmente non c’è contesto migliore di
quello bellico – un contesto estremo, di emergenza - per far venir fuori da
un essere umano “il suo lato oscuro”: la violenza, la crudeltà, l’animalità,
la follia; la bassezza appunto. Verhoeven questo lo sa, e nel suo film non
esita a mostrarlo. Così vediamo sì spietati nazisti sparare a raffica sugli
indifesi, ma vediamo anche spietati cittadini che una volta liberati
agiscono con l’impulso delle bestie, dandosi alle pubbliche torture dei
“nemici” e ribaltando barili di letame sulle donne; e vediamo donne che si
vendono ai nazisti per vivere nell’agio, o uomini che vendono ai nazisti la
loro collaborazione per avere del denaro. E poi c’è chi continua a lottare,
che di certo non se la passa meglio, fingendosi morto dentro una bara per
passare un confine, o dipingendosi il pube per ingannare le SS.
E di questa bassezza umana se ne rende presto conto anche la protagonista
del film che, non a caso, dopo aver guidato il pubblico in questo scorcio di
storia senza commentarlo ma solo passandoci attraverso, finisce in un
kibbutz a fare l’insegnante, probabilmente grata e cosciente più di chiunque
altro della fortuna di essere lì.
Voto: 25/30
09:09:2006
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